Azerbaijan. Quei giorni luminosi che ora sanno di piombo

di Giada Gavasso

“Sono le 5.30 del mattino quando esco di casa e raggiungo l’ufficio. Mi prendo qualche minuto per assaporare la città che si sta risvegliando: i negozi che alzano le saracinesche, i taxi che iniziano a sfrecciare sempre più numerosi, il silenzio che lascia il posto al suono incessante dei clacson. Mi fa sorridere vedere parcheggiate lungo la strada numerose Lada, auto famose durante i tempi sovietici, che stridono un po’ con i grattacieli alti e specchiati del centro. Ma questa è Baku e questo è l’Azerbaijan: terra dei contrasti, paese del fuoco, dove vecchio e nuovo, stili occidentali e orientali convivono creando piacevoli contraddizioni.
Arrivo davanti all’ufficio dove ad aspettarmi c’è il mio collega Kanan, e insieme saliamo sul bus diretto verso Barda, cittadina vicino al confine con la regione del Nagorno Karabakh. Il viaggio dura quasi quattro ore, intervallato da canzoni di Celentano che Kanan, eterno bambino e grande amante dell’Italia, si cimenta a cantare con un italiano un po’ sgangherato. Fuori dal finestrino, allo scenario della capitale moderna si sostituiscono strade dissestate, larghe distese di campi e piccoli paesini di campagna; più ci avviciniamo alla nostra destinazione, più sembra di tornare indietro nel tempo, e mi rendo conto che Baku in realtà è solo la copertina moderna di un paese che ha ancora molte pagine
da scrivere.
Arrivati a Barda, ci fermiamo a pranzo e Kanan mi fa provare le specialità della zona: vari tipi di formaggi e verdure, il pane tandir e l’immancabile kebab, il tutto intervallato da bicchierini di vodka, per finire poi con il classico tè accompagnato dalle varen’e, marmellate dolcissime. Alternando russo, italiano ed inglese mi racconta della guerra, delle persone ancora ad oggi scomparse o che hanno dovuto lasciare la loro casa per via dell’occupazione dei territori da parte dell’Armenia.
Ci dirigiamo poi alla sede della Croce Rossa dove incontriamo i quindici bambini che verranno con noi a Baku per visitare la capitale e assistere alla finale della UEFA Europa League. Il volontario della Croce Rossa che li accompagna mi racconta che provengono tutti da comunità che sono direttamente colpite dagli effetti della guerra e che alcuni di loro hanno dei parenti scomparsi. Guardo le facce dei ragazzini e vedo che mi spiano timidamente dai sedili del bus, probabilmente attirati dai miei tratti visibilmente non azeri; non parlano russo, quindi riesco a comunicare solo con qualche gesto o sorriso.
La curiosità che traspare dai loro occhi è facilmente percepibile e voci e risate rendono il viaggio di ritorno verso Baku più veloce e leggero”-

Rileggo questi pensieri oggi, 28 ottobre 2020, con il cuore pesante, dopo aver appreso che Barda è stata teatro di bombardamenti e che un volontario della Croce Rossa ha perso la vita. Il conflitto si è riacceso da più di un mese ormai, diversi tentativi di cessate il fuoco sono stati disattesi da entrambe le parti e le ostilità si sono spostate anche verso zone abitate da civili. Scorro le fotografie che ritraggono le abitazioni di civili distrutte, cucine dove la normale quotidianità è stata spazzata via in una manciata di secondi, visi deformati da un dolore che è tangibile anche attraverso uno schermo.
Contatto il mio amico Zumrad, un ragazzo di 24 anni con cui avevo lavorato assieme durante la mia permanenza a Baku. Mi racconta di come un ragazzo di appena 19 anni del suo quartiere è stato chiamato a prestare servizio militare ed ha perso la vita al fronte; “siamo cresciuti insieme, aveva tutta la vita davanti, non è giusto.” Ascolto le sue parole e fatico a trovarne a mia volta, qualsiasi frase pronunciata da una che della guerra fortunatamente non ha mai avuto esperienza sembra inutile.
Mi racconta che l’atmosfera nell’intero paese è molto divisa: i sentimenti di gioia per le vittorie militari si scontrano con l’angoscia e il terrore per la guerra. Dai balconi delle case sventolano le bandiere azere insieme a quelle turche e molti giovani si sono offerti volontari per andare a combattere. Forte delle vittorie che l’esercito sta guadagnando, la maggioranza del popolo vuole continuare il conflitto, riprendere i territori occupati, “tornare a casa”.
Zumrad mi spiega che i trent’anni di guerra hanno fatto sì che l’odio verso il nemico divenisse sempre più radicato, tanto che il termine “armeno” in azero viene utilizzato come un’offesa. La vita nella capitale procede più o meno normalmente, mi racconta che ci sono dei brevi momenti in cui addirittura si dimentica di quello che sta succedendo qualche centinaio di chilometri più in là, ma nonostante a volte si nasconda, il pensiero è sempre presente e mi dice che spera che finisca tutto al più presto per tirare un sospiro di sollievo.
Ripenso con una punta di tristezza al mio periodo a Baku, a quando i tassisti si meravigliavano della presenza di un’italiana, alla calda accoglienza che ho ricevuto, alle nuove mode occidentali che si mescolano con le tradizioni orientali. Continuo a scorrere fotografie di macerie e dolore e ripenso a quei giorni luminosi. Che senso ha credere ad una bandiera piuttosto che ad un’altra se alla fine è il sangue a vincere?
10 Novembre. Il primo messaggio che leggo è del mio amico Zumrad: “è finita, Giada”. Un po’ frastornata e confusa guardo le notizie e scopro che i trent’anni di ostilità tra Armenia e Azerbaijan sono finalmente finiti. Ricevo una sua videochiamata dove mi mostra le strade di Baku in festa: il concerto di clacson è assordante, la gente corre sventolando la bandiera, fuochi d’artificio colorano il cielo; il sorriso gli illumina il volto mentre mi racconta che i suoi amici, al fronte, stanno bene. Questa volta ad attraversare lo schermo del cellulare non è più il dolore, ma una gioia che, finalmente, riempie le vie e i cuori dell’intero paese.