di Giuseppe Gagliano –
Nel cuore polveroso del Belucistan, una delle regioni più marginalizzate e instabili dell’Asia meridionale, si consuma un nuovo capitolo della guerra invisibile che attraversa il subcontinente. Lo Stato Islamico della Provincia del Khorasan (ISKP), costola dell’ISIS attiva tra Afghanistan e Pakistan, ha annunciato formalmente l’apertura delle ostilità contro i gruppi separatisti beluci, responsabili a loro dire di un attacco sferrato nel marzo scorso contro un accampamento dell’organizzazione nel distretto montuoso di Mastung, costato la vita a 30 suoi combattenti.
Non si tratta di un incidente isolato né di una mera faida tra milizie. La dichiarazione di guerra arriva in un momento in cui l’ISKP, braccato dai talebani in Afghanistan e in cerca di nuove retrovie operative, cerca rifugio e legittimità in territori sempre più fuori controllo, come le aree tribali e montuose del Belucistan pachistano. Ma è anche il segnale di una frammentazione ulteriore del fronte islamista, dove jihadisti, talebani e separatisti non solo combattono nemici comuni, ma ora si rivolgono le armi anche tra loro, in un gioco a somma negativa che destabilizza interi confini.
Nel video diffuso attraverso il canale mediatico al-Azaim, l’ISKP presenta una narrazione dettagliata dei fatti, arricchita da un opuscolo di 14 pagine in lingua persiana che documenta l’assalto subito, accusa apertamente i ribelli beluci di aver agito in coordinamento con i talebani afghani e respinge con forza le insinuazioni di essere un burattino dello Stato pakistano. Anzi, rivendica la sua presenza decennale nella regione, come se volesse scolpire nella roccia della Storia un diritto territoriale fondato sul martirio e la resistenza.
Ma dietro il linguaggio ideologico e propagandistico, il messaggio è fin troppo chiaro: il Belucistan è diventato un teatro di guerra multipla, dove si combatte per il controllo delle montagne, ma anche per la narrazione egemonica del jihadismo sunnita dopo la caduta di Kabul. E mentre Islamabad cerca di tenere assieme un Paese attraversato da tensioni etniche, religiose e geopolitiche, i suoi confini si fanno sempre più porosi, la sua sovranità sempre più teorica.
Da un lato c’è l’ISKP in cerca di sopravvivenza strategica, che sfrutta il vuoto di potere in aree dove l’esercito pakistano non può o non vuole arrivare. Dall’altro i separatisti beluci, un movimento storicamente legato alla resistenza all’egemonia punjabi e al progetto infrastrutturale sino-pakistano del China-Pakistan Economic Corridor. E in mezzo, i talebani afghani, nemici giurati dell’ISIS, ma interlocutori ambigui di Islamabad, sempre più stritolata fra gli effetti collaterali della propria ambiguità strategica.
La guerra dichiarata dall’ISKP ai ribelli beluci non è solo una mossa tattica. È il tentativo di reinventarsi come attore credibile, non più in esilio ma sul campo, non più delegittimato ma legittimante, con tanto di rivendicazioni territoriali e proiezione propagandistica. Una narrazione che cerca di trasformare la fuga dall’Afghanistan in un ritorno strategico in Pakistan, mascherato da “resistenza contro gli infedeli”.
Ma dietro questa mossa si intravede una realtà più cupa e pericolosa: il Pakistan, da decenni accusato di ambiguità nei confronti del terrorismo, rischia oggi di pagare il prezzo pieno di quell’ambiguità. Le sue province di confine si trasformano in santuari di gruppi armati in guerra fra loro, mentre l’autorità statale vacilla, e con essa ogni ipotesi di stabilità.
Se l’ISKP riuscisse a trasformare il Belucistan in una nuova base operativa, lontana dai droni americani e dai talebani afghani, si aprirebbe una nuova fase della guerra asimmetrica in Asia: una guerra tra milizie senza Stato, su uno Stato senza più controllo. E forse, a quel punto, sarà troppo tardi per contenere l’incendio.