di Giuseppe Gagliano –
La Corte suprema brasiliana ha condannato l’ex presidente Jair Bolsonaro a 27 anni di carcere per il tentato colpo di Stato del 2022. Nella fattispecie la Prima camera del Supremo tribunale federale ha riconosciuto Bolsonaro colpevole di aver guidato un’organizzazione criminale con l’obiettivo di impedire l’insediamento di Lula. Una sentenza storica, che va oltre la punizione del singolo: per la prima volta l’ex presidente è assimilato a un leader che ha messo in pericolo l’ordine costituzionale. Il messaggio è chiaro: il Brasile vuole segnare una linea di confine contro i populismi che minacciano di trasformare le istituzioni in strumenti personali di potere.
La condanna colpisce anche i vertici militari e della sicurezza interna, rivelando l’ampiezza del progetto golpista: ministri, comandanti, direttori d’intelligence. È un segnale alla catena di comando militare, storicamente influente nella politica brasiliana, che il tempo delle ambiguità è finito.
La reazione degli Stati Uniti, con il segretario di Stato Marco Rubio che parla apertamente di persecuzione politica, apre uno scenario delicato. Washington aveva già colpito il giudice de Moraes con sanzioni personali, un gesto senza precedenti verso un magistrato di una democrazia alleata. Ora le minacce di “risposte equivalenti” mettono in discussione il principio di non ingerenza e trasformano una vicenda giudiziaria in un caso di diplomazia coercitiva.
La posizione di Trump, che difende Bolsonaro e paragona la sua vicenda a quella del 6 gennaio 2021, rischia di trasformare l’ex presidente brasiliano in un simbolo per la destra populista globale. Questo crea un cortocircuito tra due delle più grandi democrazie delle Americhe.
Il contesto economico amplifica la tensione: gli Stati Uniti hanno imposto dazi del 50% sui prodotti brasiliani e il commercio bilaterale sta entrando in una fase di gelo. Se la crisi si approfondisse, il Brasile potrebbe guardare ancora di più alla Cina e ai BRICS, rafforzando i legami con Mosca e Pechino. Questo spostamento di equilibri avrebbe effetti sul mercato delle materie prime (soia, minerali, petrolio), su cui si regge gran parte della bilancia commerciale brasiliana.
Sul piano interno, la sentenza può rafforzare Lula ma rischia anche di radicalizzare l’opposizione. Bolsonaro ha ancora un consenso significativo nelle regioni agricole e nelle forze armate, e il ricorso a organismi internazionali potrebbe trasformarsi in una campagna di mobilitazione politica. Il Brasile dovrà evitare che la repressione del golpismo si trasformi in vendetta politica, mantenendo la legittimità delle istituzioni.
Il caso Bolsonaro diventa così un laboratorio di democrazia: se il Brasile riuscirà a gestire questa fase senza scivolare nel conflitto civile, consoliderà il proprio status di potenza regionale e di attore globale autonomo. Se invece prevarrà la logica della contrapposizione frontale con gli USA e della persecuzione interna, il Paese rischia di ripetere la stagione di instabilità che seguì alla destituzione di Dilma Rousseff nel 2016.












