di Giuseppe Gagliano –
Nel teatro geopolitico latinoamericano, il Brasile si ricolloca con decisione al centro della scena. Al vertice di Tegucigalpa della Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici (CELAC), il presidente Lula da Silva ha compiuto un gesto politico emblematico: non solo ha riaffermato il ruolo di guida del Brasile nel processo di integrazione regionale, ma ha anche lanciato un appello per un’architettura geopolitica autonoma, capace di sottrarsi alle logiche binarie imposte dal confronto tra Stati Uniti e Cina.
Lula, oggi al suo terzo mandato, ha denunciato apertamente la vulnerabilità economica della regione dinanzi alle guerre commerciali e alle manovre predatorie delle grandi potenze. I dazi unilaterali statunitensi, risalenti alla presidenza Trump, hanno avuto secondo lui un effetto destabilizzante sull’economia globale, mentre la crescente influenza cinese solleva timori di dipendenza industriale. In questo contesto, Lula propone un’agenda regionale che non si limiti a reagire, ma agisca in modo proattivo e strutturale: un’America Latina forte, unita, con un programma d’azione comune.
Il rientro del Brasile nella CELAC, dopo l’uscita decisa da Bolsonaro, non è solo un atto simbolico. È la prova di una volontà precisa: riprendere la leadership in un continente frammentato, segnato da diseguaglianze e da modelli di sviluppo spesso subordinati agli interessi esterni. I numeri danno peso alla visione di Lula: 86 miliardi di dollari di scambi con il blocco CELAC, 670 milioni di abitanti coinvolti. Ma è soprattutto la sfida climatica ad offrire una sponda politica al Brasile. La COP-30 si terrà a Belém, nel cuore dell’Amazzonia, e Lula intende trasformare la questione ambientale in leva diplomatica per una nuova centralità del Sud globale.
Tuttavia, i dossier aperti sono molti. Sul fronte commerciale, Lula è già nel mirino di Washington: l’ambasciatore Jamieson Greer accusa il Brasile di protezionismo sull’etanolo, mentre la valuta nazionale crolla sotto i colpi della guerra dei dazi. Sul piano strategico, la Cina è un alleato ambivalente. Se da un lato rappresenta il principale acquirente del petrolio brasiliano, dall’altro alimenta crescenti timori per un’espansione industriale invasiva, che rischia di cannibalizzare la produzione locale in nome del “nearshoring”.
E poi c’è l’Iran. La CELAC ha annunciato futuri uffici di rappresentanza a Teheran, con finalità dichiarate in ambito sanitario e infrastrutturale. Ma la partecipazione iraniana alla fiera di armamenti LAAD a Rio – con in mostra droni Shahed-136 e missili Arman – solleva interrogativi inquietanti. In un mondo in cui le linee rosse della sicurezza sono sempre più mobili, l’America Latina rischia di trovarsi invischiata in confronti che non le appartengono.
Il Forum CELAC-Cina di maggio, che porterà Lula a Pechino, sarà il banco di prova della strategia brasiliana. In gioco non c’è solo la cooperazione economica, ma la definizione stessa di una nuova postura globale per il continente latinoamericano: tra le pretese imperiali del Nord e le ambizioni del Sud, tra multilateralismo e pragmatismo, tra autonomia e cooptazione.
Il dilemma di fondo resta: è davvero possibile per il Brasile guidare un’America Latina sovrana, mentre si cerca sostegno da potenze che non hanno mai smesso di considerare la regione una zona di influenza?