di Cesare Scotoni –
Il vertice di Kazan, su troppi scudi in questi giorni, come di prassi ci regala più interpreti, aruspici e indovini che protagonisti. Quello che è il “vertice dei BRICS”, momento gettonatissimo dai troppi semplificatori, ove peraltro ad oggi BRICS è e resta solo un acronimo proposto dalla Banca Goldman Sachs nel 2001 per individuare con immediatezza un raggruppamento geoeconomico di cinque grandi Paesi “in via di sviluppo”, alcuni in forte competizione tra loro che, stando a Goldman Sachs si sarebbero dovuti inglobare ad inizio del nuovo millennio in un sistema integrato di scambi egemonizzato fin a quel momento, sia politicamente, ma in special modo tecnologicamente dall’occidente, in virtù dei potenziali mercati da essi rappresentati. Eravamo quindi a prima sia dell’11 settembre 2001, sia del referendum francese sulla Costituzione dell’Unione Europea, e si trattava quindi di un modo semplice di rappresentare ai clienti di Goldman Sachs dei mercati su cui investire stando a dei dati macroeconomici. Fu quindi solo nel 2006 che Sergei Lavrov, Ministro degli Esteri della Federazione Russa e uomo di mondo, organizzò un incontro informale per capire come valorizzare al meglio quella condizione di “Nazioni Target” alla luce di quanto accaduto nei 5 anni precedenti.
Da lì in avanti, anni di chiacchiere sui “panieri monetari”, tanti investimenti massicci sull’euro da parte delle rispettive banche centrali, accordi bilaterali di cooperazione e sviluppi degli scambi commerciali, decisamente più incisivi dopo l’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti di America e dell’avvio di più conflitti internazionali durante quell’amministrazione.
Per cui ad oggi tutta la dinamica per cui i BRICS tendono ad un allargamento, avviato con la costituzione di una “BANCA” che altro non è che un veicolo d’investimento, appare come una reazione a come evolve uno spartito che tutti quei Paesi per ora subiscono. In cui è l’opportunità, ovvero la tattica a prevalere. La crescita di quei mercati è inevitabile, fatto salvo il crearsi di squilibri che non sarebbero recuperabili con le dinamiche “frizionali” che gli USA alimentano a tutela dell’egemonia conquista tra la Prima e la Seconda guerra mondiale a spese delle potenze europee. Le leadership di quei Paesi fanno i conti in dollari USA, e chi sogna altro si illude o mente sapendo di mentire. Un’alternativa allo SWIFT per gli scambi interbancari è un’esigenza di sicurezza primaria, come è indispensabile avere piattaforme di scambio per le materie prime che consentano a chi investe in nuovi processi di sostenerli e svilupparli. Ciò che mancò all’esperimento di Unione Europea, che si schiantò in piazza Maidan 10 anni fa, risulta più facile a chi non ha in casa la forza, anche militare, degli Stati Uniti d’America. Cina ed India sembrano destinati allo scontro ed il miglior alleato degli USA nei confronti della Cina resta la Federazione Russa. Ecco il perché dell’allargamento del numero degli interlocutori e la ricerca di coinvestimenti per trasformare interessi puntuali in interessi di sistema.
Tutte le chiacchiere che i tanti semplificatori propongono in questi giorni prevedono una dimensione politica di quell’iniziativa che non c’è. L’incontro di Kazan serve solo ad aprire uno spiraglio strategico ad una condivisa esigenza di potersi garantire scambi e profitti, limitando la capacità di interdizione non militare da parte degli USA, contando che il “limite dei tre fronti”, di cui si parla da un decennio come vincolo oggettivo alla macchina bellica statunitense, sembra aver avuto conferma da quando la Russia subentrò sul campo agli USA nella fase di “normalizzazione” siriana a spese di Ankara, per consentire alle portaerei della Sesta flotta di portarsi a ridosso del golfo Persico.
Dunque solo fumo e niente arrosto? No, i BRICS a Kazan sono la prova provata che gli USA ed i loro Alleati non sono in grado di isolare politicamente quei Paesi in grado di avere una propria politica estera, e che nei fatti sono le tecnologie a consentire l’efficacia dei meccanismi di regolazione. Grande lezione per un’Europa che sulla politica estera ha rappresentato ad oggi il più grande fallimento dal 1914.