
di Giuseppe Gagliano –
Il Burkina Faso è ormai da anni un epicentro della violenza jihadista nel Sahel, una regione devastata da conflitti che sembrano non trovare soluzione. Dal 2015, il Paese è stato colpito da un’escalation di attacchi condotti da gruppi affiliati ad al-Qaeda e allo Stato Islamico, con un bilancio drammatico di oltre 26.000 morti e milioni di sfollati. Gli eventi della scorsa settimana, che hanno visto due attacchi jihadisti nell’est del Paese, confermano il progressivo deterioramento della situazione, mentre il governo militare fatica a riprendere il controllo del territorio.
Le radici della crisi affondano nella fragilità strutturale del Burkina Faso, caratterizzato da una lunga storia di instabilità politica ed economica. Situato in un’area cruciale del Sahel, il Paese è diventato un nodo strategico per traffici illeciti e per il passaggio di gruppi armati. La caduta del regime di Gheddafi in Libia nel 2011 ha contribuito a diffondere il jihadismo in tutta la regione, con l’arrivo di armi che hanno alimentato l’insurrezione nel Mali, nel Niger e infine nel Burkina Faso. Il problema si è aggravato con la crescente ingovernabilità del Paese, testimoniata dai due colpi di Stato avvenuti nel 2022, che hanno portato al potere il capitano Ibrahim Traoré.
Il nuovo governo militare ha giustificato il suo intervento con la necessità di fermare l’avanzata jihadista, ma i risultati finora ottenuti sono scarsi. L’autorità centrale ha ormai perso il controllo di oltre il 60% del territorio nazionale, lasciando spazio alla crescita dei gruppi armati. Il vuoto di potere è stato colmato non solo dai jihadisti, ma anche da milizie locali create dal governo stesso per combattere gli insorti.
Uno degli episodi più drammatici della recente escalation di violenza è avvenuto nella località di Solenzo, dove decine di civili, per lo più appartenenti alla comunità Fulani, sono stati uccisi in circostanze ancora da chiarire. La comunità Fulani, tradizionalmente formata da pastori nomadi, viene spesso accusata di collaborare con i gruppi jihadisti, una percezione che ha alimentato attacchi di rappresaglia da parte delle forze governative e delle milizie paramilitari. I video diffusi sui social media nei giorni scorsi mostrano corpi senza vita, per lo più donne, bambini e anziani, con mani e piedi legati.
La giunta militare ha respinto ogni accusa, parlando di una campagna di disinformazione volta a screditare l’esercito. Tuttavia, diverse organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch, hanno documentato il crescente coinvolgimento delle forze governative in operazioni contro i civili. Secondo l’ONG, la situazione è aggravata dall’uso massiccio di milizie locali scarsamente addestrate, che operano senza un reale controllo, contribuendo all’escalation della violenza interetnica.
Oltre al conflitto interno il Burkina Faso è diventato anche terreno di scontro per influenze internazionali contrastanti. La Francia, che per anni ha mantenuto una presenza militare nella regione, ha progressivamente ridotto il suo coinvolgimento dopo il deterioramento delle relazioni con i governi locali. Questo vuoto è stato rapidamente colmato da altri attori. Mosca ha rafforzato la sua presenza nel Paese attraverso il gruppo Wagner, ora riorganizzato sotto il controllo diretto del Cremlino. Il governo burkinabé ha stretto accordi con la Russia per ricevere aiuti militari e consiglieri per la guerra contro i jihadisti. Anche la Turchia e la Cina hanno aumentato la loro influenza, fornendo droni e investimenti in infrastrutture, mentre gli Stati Uniti mantengono un monitoraggio discreto della situazione, temendo la creazione di nuove basi terroristiche nella regione.
Sul piano operativo, la strategia adottata dal governo di Ouagadougou appare sempre più incerta. La repressione militare non sta ottenendo i risultati sperati, mentre il conflitto si trasforma progressivamente in una guerra tra milizie locali e gruppi jihadisti, con la popolazione civile intrappolata in mezzo. Le opzioni per il futuro del Paese sembrano limitate. Alcuni analisti suggeriscono la possibilità di negoziati con i gruppi jihadisti, una strada già tentata in Mali e Niger con risultati incerti. Altri invocano un maggiore coinvolgimento dell’Unione Africana e delle Nazioni Unite, ma finora gli interventi internazionali si sono dimostrati inefficaci.