di Giuseppe Gagliano –
La recente controversia sulle esercitazioni navali cinesi nel Mar di Tasman conferma il progressivo consolidamento della proiezione marittima di Pechino nel Pacifico, in un contesto di crescente rivalità strategica con Canberra e Washington. La reazione australiana, pur misurata nei toni ufficiali, riflette la persistente inquietudine di fronte a un’attività militare che, seppur condotta formalmente nel rispetto del diritto internazionale, si inserisce in una più ampia strategia di assertività cinese nelle acque dell’Indo-Pacifico.
Nonostante le dichiarazioni distensive del premier Albanese, l’Australia percepisce la presenza navale cinese lungo la propria costa orientale come un segnale inequivocabile della crescente pressione geopolitica. L’intervento del ministro della Difesa Marles, che ha definito “sconcertante” la tempistica della notifica cinese, è indicativo di una frizione latente: l’Australia, come altri attori regionali, teme che la Cina stia testando i limiti della tolleranza internazionale attraverso operazioni di routine ma strategicamente significative.
Dal canto suo Pechino prosegue con la consueta dialettica: afferma la legittimità delle proprie manovre, respinge le critiche come tentativi di “gonfiare” la questione e richiama i principi del diritto internazionale a proprio favore. È una narrativa coerente con la postura adottata nel Mar Cinese Meridionale e negli stretti strategici del Pacifico, dove le forze cinesi si muovono con crescente disinvoltura, sfidando le tradizionali sfere d’influenza anglosassoni.
L’episodio si inserisce in un più ampio quadro di rimodulazione degli equilibri marittimi nel Pacifico, in cui Canberra e Wellington si trovano nella scomoda posizione di dover reagire senza esacerbare eccessivamente le tensioni. La loro capacità di risposta militare, pur migliorata grazie agli accordi AUKUS, resta inferiore a quella di Pechino, che può dispiegare rapidamente flotte avanzate in scenari operativi distanti dalle proprie coste.
Se da un lato la Cina non ha violato alcuna norma internazionale, dall’altro la modalità con cui ha comunicato le esercitazioni rivela una volontà deliberata di misurare la resilienza occidentale nel Pacifico. Il vero punto nodale non è tanto la legittimità di queste operazioni, quanto l’implicita ridefinizione dei parametri di sicurezza marittima nella regione. Il messaggio di Pechino è chiaro: la Cina è ormai una potenza navale con una presenza consolidata nel Pacifico e le dinamiche strategiche dell’Indo-Pacifico dovranno adattarsi a questa nuova realtà.