Cina. I campi – prigione per centinaia di migliaia di uiguri

di C. Alessandro Mauceri –

In Cina, nella regione ricchissima di petrolio e gas dello Xjiang vivono più di 10 milioni di uiguri. Parlano un dialetto turco e i loro tratti somatici ricordano molto i popoli dell’Asia centrale. Di loro si parla solitamente poco, li si nomina solo per ricordare le centinaia di migliaia di uiguri e di altre minoranze musulmane detenuti nei campi di “rieducazione” cinesi. Centri che il governo centrale definisce siti per favorire l’apprendimento di utili capacità di carriera, ma sono molti quelli usciti da questi centri che parlano di prigionia e di luoghi dove viene fatto una sorta di lavaggio del cervello di massa e inculcata l’obbedienza al partito comunista. Dal 2001 in Cina è in atto una forma di repressione nei confronti dei movimenti indipendentisti e separatisti, i cui inizi risalgono alla prima metà del Novecento. Col tempo la minoranza musulmana che vive in Cina è stata vittima di forme di repressione sempre maggiori da parte delle autorità. Nel 2009 nello Xinjiang, per fermare una manifestazione di uiguri, morirono centinaia di persone.
La prima prova concreta dell’esistenza di questi campi risale al 2018: una fotografia satellitare di un sito appena fuori dalla cittadina di Dabancheng, a circa un’ora di auto dal capoluogo di provincia Urumqi, mostrava una serie di giganteschi edifici grigi, tutti a quattro piani, massicci e circondati da un muro esterno lungo 2 km, punteggiato da 16 torri di guardia. Di strutture simili negli ultimi anni, ne erano sorte tante: simili a prigioni di grandi dimensioni sono tutte nello Xinjiang.
A chi ha chiedeva di cosa si trattasse veniva risposto che “È una scuola di rieducazione”, un posto dove “Ci sono decine di migliaia di persone lì. Hanno dei problemi con i loro pensieri”.
Lo scorso dicembre la questione è stata oggetto di una discussione al Parlamento europeo. Secondo i documenti presentati agli eurodeputati sarebbero centinaia di migliaia gli uiguri e le persone di etnia kazaka (tra i quali il vincitore del Premio Sacharov di quest’anno, Ilham Tohti) rinchiusi in “campi di rieducazione” politica. Alcuni documenti classificati “China cables”, recentemente resi pubblici, sembrano confermare che i musulmani, soprattutto uiguri, rinchiusi dal governo cinese in “campi di rieducazione” nella regione nord-occidentale dello Xinjiang sarebbero più di un milione.
Al termine alcuni europarlamentari hanno chiesto al governo cinese di chiudere immediatamente i “campi di rieducazione” nello Xinjiang.
Gli europarlamentari hanno chiesto inoltre al Consiglio europeo di adottare sanzioni mirate e di “congelare i beni, se ritenuto opportuno ed efficace, contro i funzionari cinesi responsabili di una grave repressione dei diritti fondamentali nello Xinjiang”.
Dal canto loro, le autorità cinesi hanno dichiarato che i “centri di formazione professionale” sono utilizzati per combattere l’estremismo religioso violento. Smentite che però non sembrano essere confermate dagli innumerevoli documenti presenti negli archivi cinesi. Alcuni, scoperti dall’accademico tedesco Adrian Zenz, mostrano appalti e progetti dettagliati per la costruzione o la conversione di dozzine di strutture con funzioni di sicurezza complete, come torri di guardia, filo spinato, sistemi di sorveglianza e guardie. I centri di “rieducazione”, come vengono chiamati questi centri di detenzione, sono stati oggetto di una gara di appalto del luglio 2017 dove si parlava di un sistema di riscaldamento in una “scuola di trasformazione attraverso l’educazione” nel distretto di Dabancheng. Bastano pochi calcoli per capire che si tratta di strutture in grado ospitare complessivamente centinaia di migliaia, forse anche più di un milione di persone.
Secondo Amnesty International nel marzo 2017 in Cina sono stati adottati “Regolamenti sulla de-estremizzazione” altamente restrittivi e discriminatori. “Esternazioni pubbliche o private di affiliazione religiosa e culturale, compresa la crescita di una barba “anormale”, l’uso di un velo o anche solo un foulard, una semplice preghiera, il digiuno o il rifiuto dell’alcol, possedere libri o articoli sull’Islam o sulla cultura uigura possono essere considerati “estremisti” in base a questo nuovo regolamento” riporta il sito di Amnesty International. Una denuncia che non è bastata a richiamare l’attenzione dei media su ciò che sta accadendo in Cina.
Nel 2018 un’inchiesta del quotidiano online Bitter Winter parlò di uiguri detenuti in campi di concentramento, venivano mostrati video filmati all’interno di questi campi simili a prigioni. A sostegno dell’esistenza di questi centri di detenzione vennero forniti documenti trafugati di nascosto che avrebbero confermato la più grande incarcerazione di massa di una minoranza etnico-religiosa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Allora come oggi il governo cinese definì queste iniziative “fabbricazione di notizie false”. E tutto venne messo a tacere. In tutto il mondo.
Oggi, nella più totale indifferenza internazionale, centinaia di migliaia di uomini e donne vengono arrestati senza accuse di crimini specifici e portati in centri di redenzione dove vengono “rieducati”. Ai loro familiari viene detto che i loro parenti sono stati “infettati” dal virus del radicalismo islamico e che devono essere messi in quarantena e curati. Quelli che finiscono in questi campi sono dei “quasi criminali”: vengono visti come un pericolo per la società non per aver commesso un crimine, ma per avere il potenziale per farlo. Una mezza giustificazione per costringere persone che, una volta identificati come aventi tendenze estremiste, hanno una sola alternativa “scegliere tra un’audizione giudiziaria” o ricevere “un’istruzione nelle strutture di de-estremizzazione”. Inutile dire che la maggior parte delle persone sceglie di “studiare”.
Nei campi gli “studenti” vengono sottoposti a un rigoroso sistema di controllo fisico e mentale, sorvegliati 24 ore su 24, costretti a rinnegare le proprie convinzioni e ad elogiare il partito comunista. Chi si comporta “bene” guadagna dei “crediti” per il processo di “formazione”/“trasformazione culturale” al termine del quale viene trasferito in un altro campo dove “deve formarsi in ambito lavorativo”.
Un think thank australiano, citando documenti governativi e resoconti dei media locali, parla di trasferimenti in massa di questi detenuti/studenti verso le fabbriche viste come un’estensione dei campi di rieducazione dello Xinjiang. Una tesi che il ministero degli Esteri cinese ha respinto dichiarando il report inattendibile e senza prove. Il governo di Pecchino ha sempre negato le accuse, dicendo che le persone coinvolte frequentano volontariamente speciali “scuole professionali” che combattono il “terrorismo e l’estremismo religioso”.