di Giuseppe Lai –
Martedì 7 ottobre la Banca Mondiale ha pubblicato il suo rapporto economico semestrale per l’Asia orientale e la regione del Pacifico, con una previsione di crescita del Dragone del 4,8% nel 2025 e del 4,2% nell’anno successivo. Nel testo ufficiale del rapporto si evidenzia che “la crescita in Cina, la maggiore economia della regione, è destinata a diminuire a causa di un rallentamento atteso delle esportazioni e di una probabile riduzione dello stimolo fiscale alla luce dell’aumento del debito pubblico, oltre a una continua decelerazione strutturale”. In altri termini, secondo la Banca mondiale, a fronte di risultati migliori rispetto al resto del mondo, la riduzione dell’export, l’allentamento delle agevolazioni fiscali e il debito fanno da contrappeso a una crescita significativa dell’economia. Al di la delle previsioni, è utile fare alcune osservazioni storiche sul ciclo economico cinese e sui fattori che configurano il quadro macroeconomico in corso nel Paese.
E’ dalla fine del 2014 infatti che la riduzione della crescita economica della Cina da tassi a doppia cifra a ritmi più contenuti preoccupava il governo cinese, così come il resto del mondo. Nell’estate del 2014, il crollo delle borse di Shanghai e Shenzhen aveva scatenato il panico sui mercati finanziari ed era diffuso il timore che da un ritmo di crescita compreso tra l’8 e il 10% annuo per oltre 20 anni, un più modesto 6-7% significasse l’arresto di un motore che aveva trainato la crescita mondiale tra il 2009 e il 2014, con il rischio concreto di recessione su scala globale. Partendo da questi dati economici non in linea con le aspettative, nel 2015 fu lanciato il “Made in China 2025”, un progetto del governo cinese che nelle intenzioni del presidente Xi Jinping mirava a trasformare la Cina da “fabbrica del mondo” a potenza tecnologica avanzata in grado di assumere la leadership delle industrie del futuro. Il piano prevedeva investimenti in dieci settori tra cui energia, semiconduttori, automazione industriale e materiali high-tech, con l’obbiettivo di incrementarne la produttività, ridurre la dipendenza del Paese dalle importazioni e dalle imprese straniere e implementare la competitività delle aziende cinesi nei mercati globali. Il progetto, accompagnato da un notevole supporto finanziario del governo (circa 1-2% del PIL annuo) attraverso sussidi, agevolazioni fiscali e credito a basso costo, ha indubbiamente condotto a risultati tangibili: la Cina è leader indiscussa nei veicoli elettrici, nella produzione di energia con tecnologie green e domina nei droni, nell’automazione industriale e in altri prodotti elettronici. Basti pensare che nel 2024 ha prodotto quasi tre quarti dei veicoli elettrici del pianeta e detiene la quota del 40% delle loro esportazioni globali.
Sarebbe tuttavia riduttivo attribuire al solo sostegno finanziario pubblico le ragioni dell’avanzata cinese in questo ed altri settori. Negli ultimi 30 anni la Cina ha costruito una rete autostradale nazionale lunga il doppio del sistema interstatale americano, una rete ferroviaria ad alta velocità con più chilometri di binari rispetto al resto del mondo messo insieme e una rete efficiente di porti, con il porto di Shanghai, il più grande, che gestisce un movimento merci superiore a quello dell’intero sistema portuale statunitense. Anche gli investimenti nelle infrastrutture elettriche e digitali hanno dato i loro frutti. Attualmente la Cina genera ogni anno più elettricità degli Stati Uniti e dell’Unione Europea messi assieme e le linee di trasmissione ad altissima tensione sono in grado di trasportare l’elettricità in modo efficiente su lunghe distanze. Questo processo di elettrificazione, nato per sopperire alla carenza di energia nelle zone industriali e per liberare capacità ferroviaria per scopi diversi dal trasporto del carbone, ha assunto in prospettiva un ruolo strategico. Il governo è infatti consapevole che l’elettricità abbondante e a basso costo è il motore dell’innovazione industriale poiché favorisce le industrie ad alta intensità energetica del futuro, incluso il settore dell’intelligenza artificiale. Quest’ultimo comparto, in particolare, rappresenta da diversi anni un pilastro della strategia nazionale cinese e ciò si evince anche dal numero di brevetti relativi all’IA.
Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della Proprietà Intellettuale (WIPO), tra il 2014 e il 2023 la Cina ha depositato più di 38.000 brevetti, una quantità largamente superiore a quella degli Stati Uniti che nello stesso periodo ne hanno depositati 6.276. Al tempo stesso, il Paese è il principale promotore della ricerca scientifica in questo campo, con una crescita nel 2023 della spesa in ricerca e sviluppo pari all’8,7%, superiore a quella degli Usa (1,7%) e della Ue (1,6%). Nel valutare l’evoluzione tecnologica del Dragone non bisogna dimenticare l’elemento cardine dell’infrastruttura profonda della Cina: una forza lavoro industriale di oltre 70 milioni di persone, la più grande del mondo. Grazie all’esperienza maturata nell’arco di decenni nel settore manifatturiero, tutte le categorie professionali cinesi, dai direttori di fabbrica agli operai, hanno una conoscenza dei processi che consente l’innovazione iterativa, ossia la modifica costante dei prodotti in modo che possano essere realizzati con maggiore efficienza, con una qualità migliore e con costi inferiori. Questa propensione all’innovazione ha profonde radici sociali e deriva da un’estrema adattabilità al cambiamento della popolazione cinese. Nel Paese si sono verificati mutamenti a velocità record, a partire da abitudini e costumi di una popolazione che si è trasformata da prevalentemente rurale a urbana in poco più di vent’anni, con un tasso di urbanizzazione passato da meno del 40 per cento a inizio 2000 a oltre il 65 per cento nel 2022.
La tendenza all’innovazione si accompagna a un’altra caratteristica della forza lavoro cinese, la versatilità: un operaio del comparto iPhone di un’azienda è in grado di passare dall’assemblaggio di telefoni alla costruzione di droni o batterie per veicoli elettrici. Le considerazioni fatte finora sui dati strutturali e innovativi del comparto industriale sembrerebbero non giustificare le sfide economiche che il Paese sta attraversando: rallentamento economico, diminuzione degli occupati, debolezza della domanda interna. Il punto è che tali sfide derivano, almeno in parte, dalle stesse politiche industriali che hanno portato allo sviluppo del modello cinese. Infatti, i tecnocrati hanno indirizzato risorse e sussidi non solo verso i target ad alta produttività, ma anche verso le imprese statali poco efficienti, che in tal modo restano in attività molto più a lungo di quanto farebbero in un’economia più guidata dalla concorrenza. Per mantenere le loro quote di mercato queste aziende tagliano continuamente i prezzi e ciò riduce i profitti, innescando una tendenza alla deflazione e all’indebitamento e trascinando verso il basso l’efficienza dell’economia. A causa di limitati introiti finanziari, le stesse aziende riducono le loro spese in ricerca e sviluppo e mostrano cautela nell’assumere nuovo personale o nell’aumentare i salari.
Con i posti di lavoro difficili da trovare, gli stipendi che aumentano poco o niente e il prezzo delle case, che sono la risorsa principale della maggior parte dei cinesi, in calo, i consumatori sono diventati riluttanti a spendere. Le imprese private, vedendo la debolezza della domanda, come prima accennato hanno difficoltà ad assumere o ad aumentare i salari. Si crea così un circolo vizioso, caratterizzato da una debolezza dei consumi interni e da un rallentamento dell’economia, che spinge la fiorente produzione manifatturiera verso l’export portando a surplus commerciali sempre maggiori. Il rischio è che tali volumi di export possano innescare un protezionismo molto più severo e coordinato dal resto del mondo, con vari Paesi che si uniscono agli Stati Uniti nell’erigere barriere tariffarie alle importazioni cinesi. D’altro canto, una crescita economica più lenta potrebbe riflettersi negativamente sul comparto industriale più avanzato e promettente e costituire un freno alla proiezione delle imprese verso l’innovazione. Questa dicotomia tra sovra capacità dell’export e debolezza della domanda interna contraddistingue l’attuale ciclo economico “a due velocità” del modello cinese. E’ un equilibrio instabile, che necessita di riforme strutturali basate su aumento dei redditi, maggiore protezione sociale e creazione di nuova occupazione produttiva. Le autorità cinesi hanno emanato di recente delle “linee guida” per stimolare i consumi, mirate a favorire l’accesso al credito a imprese e famiglie in vari settori, tra cui il commercio al dettaglio, la ristorazione, la cultura, lo sport e l’intrattenimento. Tali misure difficilmente riusciranno a produrre un aumento significativo della fiducia delle famiglie in mancanza di una stabilizzazione del mercato immobiliare e di una riforma strutturale del mercato del lavoro. E’ tuttavia necessario che il governo cinese integri tali provvedimenti in un modello di sviluppo per il Paese e vada oltre la prassi ormai consolidata degli annunci e della propaganda.












