di Riccardo Renzi –
La recente dichiarazione della Cina di “non temere una guerra commerciale” con gli Stati Uniti, pur continuando a sollecitare il dialogo, è solo l’ultimo tassello di un confronto sempre più aspro e strutturale tra le due superpotenze. Sotto la superficie delle tariffe doganali, che hanno raggiunto livelli record (145% per i dazi statunitensi, 125% per le contromisure cinesi), si cela una competizione globale a tutto campo: commerciale, tecnologica, finanziaria e strategica. Quella tra Pechino e Washington non è solo una battaglia per il controllo degli scambi, ma un vero e proprio scontro per la supremazia nel XXI secolo.
Il punto di svolta va rintracciato nel 2015, quando Xi Jinping lanciò il piano “Made in China 2025”, una road map per trasformare la Cina da fabbrica del mondo a leader globale nelle industrie high-tech: semiconduttori, intelligenza artificiale, veicoli elettrici, aerospazio. Un progetto che ha messo in allarme l’Occidente e in particolare gli Stati Uniti, timorosi di perdere il primato in settori strategici. È da quel momento che la Cina ha smesso di essere considerata un semplice partner commerciale: è diventata il principale competitor sistemico.
Sebbene sia stato Donald Trump a inaugurare la stagione delle guerre tariffarie, anche i democratici – da Obama a Biden – hanno mantenuto e perfino rafforzato una linea dura verso Pechino. La politica del “decoupling” (separazione economica) ha trovato consenso bipartisan. Le misure di contenimento oggi non si limitano ai dazi: si parla di blocco delle esportazioni tecnologiche, limitazioni agli investimenti, e persino delisting delle società cinesi dalle borse americane. L’ultima mossa in ordine di tempo è il bando dell’export di microchip Nvidia, vitale per l’economia digitale cinese.
Secondo Goldman Sachs, un’eventuale rottura completa tra i mercati finanziari statunitensi e cinesi potrebbe generare una perdita fino a 2.500 miliardi di dollari. Gli investitori americani sarebbero costretti a dismettere 800 miliardi di dollari in azioni cinesi, mentre Pechino potrebbe vendere oltre 1.300 miliardi in titoli del Tesoro USA. Si tratta di una bomba economica pronta a esplodere: al momento, circa 286 aziende cinesi sono ancora quotate a New York, per una capitalizzazione complessiva di oltre un trilione di dollari.
Il cuore della sfida si è però spostato nei dati. Il dominio sulla gestione, conservazione ed elaborazione delle informazioni è diventato centrale tanto quanto la supremazia commerciale. I data center, infrastrutture fisiche dove vengono archiviati e processati dati digitali, sono diventati asset strategici per la sicurezza nazionale. Gli Stati Uniti guidano la classifica mondiale con oltre 3.000 strutture (alcune stime parlano di più di 5.000), concentrate soprattutto in Virginia. La Cina è ben distante, con poco più di 300, ma in rapido recupero.
Il valore del mercato globale della costruzione di data center è stimato in 240 miliardi di dollari nel 2024, con previsioni di crescita fino a 490 miliardi entro il 2034. Questo trend è trainato non solo dalla digitalizzazione, ma anche dalla corsa all’intelligenza artificiale, di cui i data center sono l’infrastruttura abilitante. Per questo, il controllo delle reti e delle architetture digitali non è più una questione tecnica, ma geopolitica.
La guerra dei dazi ha generato una polarizzazione che si riflette anche sulle alleanze globali. In Asia, paesi come Giappone e Corea del Sud restano saldamente nel campo occidentale, preoccupati dalle crescenti aggressioni cinesi nel Mar Cinese Meridionale. In Europa, invece, si registra una tentazione crescente di “terzismo”, con segmenti dell’opinione pubblica e del sistema produttivo che auspicano un maggiore dialogo con Pechino come forma di resistenza alla pressione americana.
Ma anche in Europa, come dimostrano le mosse della Commissione guidata da Ursula von der Leyen, si fa sempre più largo la consapevolezza che la concorrenza cinese è strutturalmente sleale: sussidi di Stato, obbligo di joint venture, trasferimento forzato di tecnologia, eccesso di capacità produttiva. Per l’UE, il rischio non è solo geopolitico, ma anche economico: la Cina potrebbe riversare sul mercato europeo una nuova ondata di esportazioni a basso costo.
In ultima analisi, lo scontro tra USA e Cina non è un episodio passeggero né esclusivamente commerciale. È la manifestazione di un nuovo ordine mondiale in formazione, bipolare, competitivo e frammentato, dove le interdipendenze sono viste sempre più come vulnerabilità e meno come opportunità. La battaglia non si combatte solo con i dazi, ma con i chip, i dati, le alleanze strategiche e le narrative globali.
L’esito finale? Ancora incerto. Ma se le due potenze non troveranno un equilibrio, l’intero sistema globale rischia un decoupling irreversibile, con costi economici e politici che potrebbero superare di gran lunga quelli già in corso. E l’Europa, nel mezzo, sarà chiamata a scegliere se restare spettatrice, ago della bilancia o, infine, campo di battaglia.