Cina, USA e la strategia per la supremazia mondiale

di Dario Rivolta * –

Il cammino degli Stati Uniti verso l’egemonia mondiale non è cominciato dopo la seconda guerra mondiale. Già nel 1823, la Dottrina Monroe esprimeva il concetto che gli Stati Uniti avrebbero dovuto garantirsi la supremazia sul continente americano e i primi a fare le spese di quest’obiettivo furono gli spagnoli che, con la guerra del 1898, furono definitivamente scacciati dai loro ultimi possessi nei Caraibi (e anche dalle Filippine). Allora, la principale via di comunicazione commerciale interna era il bacino Missouri/Mississippi che andava in direzione nord-sud sfociando proprio di fronte alle isole caraibiche. Fu naturale calcolare che si doveva impedire che una qualunque potenza straniera potesse mettere a rischio quello sbocco per le proprie merci e per i rifornimenti. Da qui la guerra. Nel 1904, il Presidente Roosevelt attraverso un suo documento ricordato sotto il nome di “Corollario” volle ulteriormente precisare che, per tutelare la propria sicurezza nazionale, gli USA “nazione civilizzata” sarebbero intervenuti contro ogni comportamento “sbagliato” nel continente americano agendo in veste di “polizia internazionale”. Non si trattò solamente di parole e gli anni successivi l’hanno dimostrato: ancora prima della guerra di Reagan contro i Sandinisti in Nicaragua, Washington ha sempre fatto di tutto per impedire che qualunque potenza virtualmente ostile potesse prendere piede, se pur indirettamente, nelle proprie vicinanze. Durante la Guerra Fredda una commissione bipartisan del Congresso scrisse, tra l’altro,: “ se gli Stati Uniti dovessero difendersi da minacce alla sicurezza vicino ai propri confini… il risultato sarebbe di dover ridurre gli importanti impegni in tutto il resto del mondo”. Garantita, infatti, la propria sicurezza vicino ai confini, dalla fine della prima guerra mondiale gli Stati Uniti hanno cominciato a pesare sempre di più nel panorama internazionale. Il crollo sia militare sia economico dell’impero inglese dopo la seconda guerra mondiale ha suggellato il ruolo che Washington riveste oggi nel mondo intero.
La forza degli USA, è bene specificarlo, non è oggi solo militare o economica e si basa anche su un grande soft-power che gli Stati Uniti hanno saputo sviluppare soprattutto dagli anni quaranta a oggi. La loro abilità è stata quella di utilizzare la forza economica per esercitare un’influenza politica, di saper sviluppare una tecnologia più avanzata rispetto a tutto il resto del mondo, di promuovere e, di fatto, dirigere, le più importanti istituzioni internazionali e di riuscire a stabilire le regole generali di comportamento per tutti gli stati che vogliono avere rapporti con loro.
L’Unione Sovietica, che fu il maggior rivale per quasi cinquant’anni, poté forse pareggiare la forza militare degli USA ma, a partire dalla dimensione economica, mancarono tutte le altre chiavi necessarie per imporsi come vero leader del mondo.
Sulla scena internazionale è però apparso da qualche anno un nuovo possibile antagonista che ambirebbe non a sostituire il ruolo che fu dell’Unione Sovietica ma addirittura quello degli stessi Stati Uniti. Se gli USA, prima di imporsi al mondo dovettero garantirsi di non avere problemi attorno a casa, c’è da chiedersi se questa sarà la strada che sceglieranno i cinesi. Prima della presidenza di Xi Jinping l’atteggiamento cinese verso il resto del mondo aveva seguito la tattica suggerita da Deng Xiao Ping e cioè di comportarsi con understatement in tutte le relazioni internazionali. Con l’arrivo del nuovo presidente questo atteggiamento è cambiato e, nel 2017, Xi dichiarò ai membri del Partito che la Cina doveva “assumere il centro della scena nel mondo”. E’ evidente a tutti che quel “centro della scena” sia oggi già occupato e che ambirvi implica una competizione. Di quale tipo e in che modo perseguirla potrebbe ancora rimanere nel vago ma un qualche indizio di cosa abbiano in mente i cinesi lo si può dedurre dalle parole del presidente cinese quando, nel descrivere il peggiorare le relazioni con Washington, definì il compito che la Cina ha davanti a se quale “una nuova lunga marcia”. La “lunga marcia” fu una ritirata militare, accuratamente pianificata, intrapresa dall’Armata Rossa del Partito Comunista Cinese per sottrarsi all’accerchiamento delle truppe di Chiang Kai Shek. Consentì a Mao di salvare il grosso del suo esercito e preparare poi la riscossa che finì con la vittoria definitiva sui nazionalisti.
Qual è la strategia che Pechino intenderà perseguire per raggiungere l’obiettivo finale di superare gli Stati Uniti? Anche se tutti sanno che i politici cinesi ragionano sempre sui tempi medi e lunghi, qualora la strada da intraprendere passasse attraverso l’eliminazione di tutti i possibili avversari adiacenti ai propri confini, l’impresa non sembra facile. Gli americani non erano circondati da potenze particolarmente forti e gli alleati degli stati vicini erano lontani e preda di numerosi problemi interni. Per la Cina le cose stanno differentemente. La Corea del Sud. Il Giappone e Taiwan sono strettissimi alleati degli americani. Il Vietnam è, da secoli, una realtà la cui popolazione prova sentimenti anticinesi e l’India, allo stesso modo, non ha mai goduto buone relazioni con il vicino e tuttora persistono forti contenziosi sulle zone di confine. Recentemente ha perfino deciso di mettere fuori legge numerose app cinesi, quali TikTok e WeChat, e risulta difficile immaginare un vero miglioramento dei rapporti. Spostandoci un poco più in là, Indonesia e Australia hanno ognuna il proprio motivo per non vedere di buon occhio una possibile egemonia cinese nell’area. Solo le Filippine e la Tailandia, per ora ancora più vicine a Washington che a Pechino, sembrano essere l’anello debole dell’alleanza pro-americana, ma i due paesi insieme non sono sufficienti per ipotizzare che gli equilibri nella zona possano cambiare in modo importante.
Sotto il punto di vista strettamente militare è cosa risaputa che la Cina abbia deciso di rinforzare il proprio esercito, la propria aviazione, la propria marina e stia investendo molto anche nella tecnologia spaziale. Tuttavia, nonostante gli investimenti nella marina da guerra siano molto importanti per lo scopo di garantirsi le vie di comunicazione marittime, la capacità navale degli Stati Uniti continua a essere di gran lunga molto più possente di quanto Pechino potrebbe arrivare a mettere insieme nei prossimi quindici, venti anni. A Pechino non sono certo degli sprovveduti e sanno che dal punto di vista bellico le loro possibilità a livello globale sono notevolmente inferiori a quelle americane e la loro tattica è, evidentemente, far di tutto per evitare qualunque scontro diretto nel breve e medio termine. Per il momento, ciò che sembra essere l’obiettivo concernente la “periferia” è di trasformare i Mari Cinesi del Sud e dell’Est in acque in qualche modo “controllabili” e si spiegano così gli isolotti trasformati in basi per navi e aerei e i contenziosi con i vicini per la definizione delle aree marittime di competenza. Fuori dall’area ha cominciato con poche basi militari a Gibuti, in Pakistan e a Hambatota, nello Sri Lanka. Per ora, l’unico rischio di un confronto militare riguarda la questione Taiwan ma, salvo errori statunitensi o gravi problemi interni alla politica di Washington, non è prevedibile che, perfino in quella direzione, succeda qualcosa d’irreparabile.
Messa da parte l’opzione bellica, le strade scelte dai cinesi per costruire la propria egemonia mondiale sembrano meno immediate ma non meno efficaci. Si tratta delle iniziative commerciali e finanziarie a vasto raggio, dell’innovazione tecnologica, del tentativo costante di indebolire la rete delle alleanze americane, di estendere a dismisura le proprie rappresentanze diplomatiche e, ove possibile, di utilizzare il soft-power culturale.
Nel primo caso, lo strumento principe è la Nuova Via della Seta, operazione su scala mondiale che ricorre, a seconda dei casi, al metodo del “bastone e carota”. Offre elargizioni e finanziamenti generosi per la costruzione di infrastrutture e altro e si riserva il diritto di proprietà nel caso i debiti non possano essere ripagati. Quanto all’innovazione tecnologica il Paese del Dragone è quello che vi inteste più di tutto il resto del mondo e chiunque si trovasse a passeggiare per una città cinese vedrebbe come anche il più povero di quegli abitanti già sia oggetto e soggetto dei metodi informatici. Nelle città più grandi l’intelligenza artificiale è diventata indispensabile per ogni tipo di pagamento, per ricevere lo stipendio, per accedere ai pubblici servizi di ogni genere compreso quelli sanitari, per entrare in casa o iscrivere i figli alle scuole. Dopo gli attacchi di Trump al 5G di Huawei e ZTE, il Governo ha deciso di stanziare enormi risorse per arrivare a una produzione locale dei semiconduttori importati dagli Stati Uniti e uguale sforzo finanziario è indirizzato verso le nano e le biotecnologie.
Dal punto di vista diplomatico e politico, oltre al “cavallo di Troia” della Nuova Via della Seta, Pechino fa di tutto per indebolire e dividere l’alleanza occidentale coltivando in particolare i paesi dell’est europeo e di approfittare degli screzi che la presidenza Trump ha con alcuni alleati asiatici (vedi Filippine). Ovunque possibile, anche di là degli immediati interessi commerciali, i diplomatici cinesi favoriscono l’apertura all’estero di uffici di società del loro paese e cercano di rinsaldare i rapporti con cittadini cinesi emigrati perfino decenni prima. Va ricordato che per un cinese la “doppia nazionalità” è impossibile e una legge prevede che, se richiesto, ogni connazionale deve “rispondere” alle esigenze manifestate dalla “patria”. Forse questi aspetti non erano del tutto chiari ai nostri politici che si precipitarono a plaudire l’interesse di Pechino verso i porti di Trieste e di Vado Ligure. Anche se gli investimenti di Pechino nel nostro paese continuano a rimanere minuscoli rispetto a quanto fatto in altri paesi europei, siamo stati noi il primo dei paesi fondatori dell’Unione ad aderire supinamente al progetto della Nuova Via della Seta. Vanno, comunque, ricordati i precedenti investimenti nei porti belgi di Zeerbrugge e Anversa, di Marsiglia in Francia, di Valencia in Spagna, del Pireo in Grecia e di Amburgo in Germania. Senza contare le quote negli aeroporti, come a Francoforte.
L’altra azione pervasiva che Pechino sta attuando è pure nelle varie organizzazioni internazionali ove, poco per volta, si sta impadronendo di posti chiave e acquisendo nuove alleanze. Nei casi in cui gli è stato impedito, come alla Banca Mondiale, ha proceduto alla creazione di enti paralleli, quali la Banca Asiatica per gli Investimenti cui hanno aderito anche alcuni paesi europei. I delegati cinesi e gli ambasciatori sono riusciti ad ottenere che in tutte le istituzioni internazionali sia messa al bando qualunque critica alla propria nota indifferenza verso il rispetto dei diritti umani. La Cina non dimentica, infatti, la necessità di avere una propria immagine positiva e la giudica, comprensibilmente, un indispensabile strumento per arrivare alla futura egemonia. Il processo non è semplice perché l’approccio culturale dei cinesi verso le altre culture è sempre stato condito da un sentimento di superiorità che non si può fare a meno di percepire. Esiste una sorta di barriera psicologica contro una possibile leadership cinese che si vede nettamente in Africa nonostante gli enormi investimenti che Pechino ha riversato in quel continente.
A sostegno del proprio soft-power nascono come funghi i “Centri Confucio” e si moltiplicano le alleanze con università di tutto il mondo. Perfino durante la crisi dovuta al Coronavirus e nonostante le evidenti responsabilità di Pechino nei voluti ritardi con cui la notizia dell’epidemia sia stata data al resto del mondo, la Cina ha cercato di proporsi positivamente come donatore di aiuti ed efficiente risolutore della pandemia nel proprio paese.
A questo punto è bene tornare sugli Stati Uniti e su come essi stiano reagendo alla sfida loro lanciata. C’è voluto molto tempo prima che Washington si accorgesse della gravità del pericolo. In un primo momento, accecati dal denaro profuso a iosa sui propri titoli del Tesoro e sugli acquisti a buon mercato da parte dei consumatori americani, non ci si è resi conto di ciò che realmente stava succedendo e si è lasciato che tutto procedesse come se nulla fosse. Finalmente si sono aperti gli occhi e, dapprima Obama e ora Trump, hanno cercato in modi diversi di intervenire, seppure i rapporti di forza siano nel frattempo cambiati nonostante il vantaggio statunitense resti tuttora molto maggiore rispetto al rivale. Purtroppo, sembra che i veri termini della sfida non siano ancora totalmente chiari all’attuale presidente americano e alcune delle sue decisioni sono ai limiti dell’auto-sabotaggio. Il disimpegno dichiarato dagli USA (e spesso attuato) verso alcune organizzazioni e verso accordi internazionali lascia un vuoto che Pechino si sta affrettando a riempire. Le dichiarazioni tutt’altro che amichevoli nei confronti di alcuni stati tradizionalmente alleati, favoriscono nei popoli di quei paesi il proliferare di sentimenti antiamericani mai del tutto scomparsi. Le guerre commerciali lanciate contro mercati e prodotti tradizionalmente legati agli USA non possono che spingere quelle capitali a valutare la possibilità di sbocchi alternativi. Il rischio finale è che l’orgoglioso detto “America first” finisca col diventare un suggello dal sapore ironico alla perdita di una posizione che fu di vera primazia.

Dario Rivolta.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.