Clima. Conclusi i lavori preparatori della Cop23, tra speranze e disillusione

di C. Alessandro Mauceri

Si sono conclusi a Bonn, in Germania, sede della COP23 affidata alle isole Fiji, i lavori preparatori che hanno visto la partecipazione di rappresentati provenienti da 196 paesi. Durante gli incontri gli inviati hanno parlato di diversità dei cambiamenti climatici nelle varie zone del pianeta, dei temi caldi che verranno discussi durante i lavori dalla COP23, delle tecnologie innovative che potrebbero ridurre le emissioni e perfino delle modalità di realizzazione di un concorso per i giovani sui cambiamenti climatici.
Solo al termine degli incontri è stato discusso uno dei temi più spinosi che riguarda l’ambiente: le procedure per aiutare i paesi ad accelerare l’implementazione delle misure per la lotta alle emissioni e il Green Climarte Fund (CGF).
Sebbene se ne parli poco (anzi pochissimo), il Green Climarte Fund potrebbe essere la vera ragione dell’ostinazione (secondo molti assurda e priva di ogni fondamento scientifico) del presidente americano Donald Trump di negare gli effetti delle emissioni di CO2. Ma anche alcuni comportamenti anomali del suo predecessore. Tre giorni prima della scadenza del proprio mandato, l’ex presidente degli Usa Barak Obama versò la ragguardevole somma di 500 milioni di dollari al Green Climarte Fund. Una decisione che molti definirono una sfida ambientalista nei confronti del suo successore Trump, ma anche una buona azione per l’ambiente. Pochi pensarono che in realtà quella di Obama poteva essere solo un tentativo in extremis di rispettare, se non in toto almeno in parte, quello che gli Usa avevano promesso di fare molti anni prima.
Il problema delle emissioni di CO2 non riguarda solo le aziende, che da sempre si oppongono a queste limitazioni, ma anche la richiesta dei paesi meno sviluppati di poter fare quello che gli altri paesi, quelli più sviluppati, hanno fatto finora. Cioè di inquinare per produrre. La richiesta avanzata dai paesi meno industrializzati è: “Perché ora dovremmo rispettare processi produttivi e comportamentali virtuosi per inquinare di meno se voi lo avete fatto per anni?”.
Proprio per consentire a questi paesi di colmare il gap che li separa dai paesi più sviluppati senza costi eccessivi, nel 2009, durante la XV Conference Of the Parties (COP15) a Copenhagen, i paesi sottoscrissero un accordo (Copenhagen Accord) che prevedeva la creazione del “Copenhagen Green Climate Fund”.
Le modalità di finanziamento del fondo vennero definite poco dopo, durante la 2010 United Nations Climate Change Conference a Cancun: ogni paese “sviluppato” avrebbe dovuto contribuire al fondo per una quota parte (la maggiore era quella degli USA) per complessivi 100 miliardi di dollari all’anno (tranne una prima fase di start up di tre anni che prevedeva contributi minori). Grazie a questi fondi i paesi meno sviluppati avrebbero potuto adottare da subito processi produttivi e percorsi meno pesanti per l’ambiente e ridurre le emissioni di CO2 a livello globale.
Il problema è che, come è emerso nel corso dei lavori appena conclusi a Bonn, nessuno dei paesi più industrializzati (e primi fra tutti gli Stati Uniti) ha mai mantenuto gli impegni sottoscritti.
Per questo i partecipanti agli incontri di Bonn hanno dovuto prendere atto che il fallimento degli accordi di Parigi e di Marrakech sono dovuti non solo al rifiuto di Trump di ammettere quale è la causa dell’innalzamento delle temperature, ma anche ad un comportamento generalizzato che ha reso impossibile l’attuazione di molte delle iniziative per favorire lo sviluppo di economie sostenibili nei paesi meno sviluppati.
A dimostrarlo (come al solito) sono i numeri. Il GCF, il fondo che avrebbe dovuto permettere un reale “cambiamento di paradigma” nel finanziamento verde, non ha soldi a sufficienza per portare avanti le iniziative previste da molti anni. Spenti i riflettori la maggior parte dei paesi sviluppati hanno dimenticato di dover contribuire allo sviluppo dei paesi più arretrati: fino ad oggi, nelle casse del GCF sono arrivati poco più di 10 miliardi di dollari (e molti di questi più promessi che effettivamente versati), invece delle centinaia di miliardi annuali. I pochi contributi ricevuti sono finiti chissà dove e i pochi riservati agli aiuti ai paesi meno sviluppati stentano a raggiungere i beneficiari finali.
Un fallimento dovuto quasi esclusivamente dalla ritrosia dei paesi sviluppati di mettere mano al portafoglio, nonostante gli accordi firmati, le dichiarazioni alla stampa e le foto di gruppo. E la situazione nel prossimo futuro potrebbe peggiorare ulteriormente dato che sono in molti ad esercitare forti pressioni perché si rinunci del tutto agli impegni presi, forse anche temendo una concorrenza insuperabile: negli Stati Uniti il senatore repubblicano John Barrasso ha obiettato che l’impegno del governo di contribuire così lautamente al fondo non sarebbe mai stato autorizzato dal Congresso e ha definito le risorse impegnate “un insulto ai contribuenti americani”.
Una situazione che vede anche l’Europa sul banco degli imputati: se da un lato, quando si tratta di fare promesse è l’Unione Europea a mettersi in prima fila, dall’altro, nel caso degli impegni a versare quote rilevanti al GCF, è stata la stessa Unione a tirarsi indietro, lasciando il compito di rispettare questi impegni ai singoli paesi.
Il risultato è che a sette anni dalla sua nascita il GCF ha ancora enormi difficoltà già solo per definire progetti “di qualità” e di essere determinante nella riduzione delle emissioni. Iniziative che avrebbero potuto consentire lo sviluppo delle economie di molti paesi africani con conseguenze notevoli nella riduzione dei flussi migratori, nell’abbattimento delle emissioni, nella crescita sociale e nella riduzione delle disparità in molte zone del pianeta. In altre parole tutto ciò che avrebbe privato i paesi sviluppati di continuare a decidere per tutto il pianeta. Forse, a pensarci bene, è proprio questo il motivo per cui molti di loro hanno finto di aver dimenticato le promesse fatte per contribuire al GCF.