di Giuseppe Gagliano –
La Corea del Sud ha compiuto un passo decisivo nel suo percorso verso la costruzione di sottomarini a propulsione nucleare, presentando la scelta come una misura difensiva e non come l’avvio di una corsa agli armamenti. Tuttavia, dietro la prudenza diplomatica di Seul si cela una partita strategica di enorme portata, che coinvolge gli Stati Uniti, la Cina e l’intero equilibrio del Pacifico.
L’autorizzazione concessa da Donald Trump alla costruzione di un sottomarino sudcoreano a propulsione nucleare non è solo un gesto tecnico: rappresenta un cambiamento di paradigma nella politica americana di non proliferazione. Per decenni Washington ha ostacolato ogni tentativo sudcoreano di dotarsi di questa tecnologia, temendo un effetto domino in Asia orientale. Ora, la minaccia rappresentata dal programma nucleare nordcoreano giustifica agli occhi della Casa Bianca una deroga storica.
Seul afferma che l’obiettivo è esclusivamente difensivo: controbilanciare l’annuncio di Pyongyang di possedere propri sottomarini nucleari e consolidare la deterrenza nella penisola. Ma è evidente che l’ingresso della Corea del Sud nel club dei Paesi dotati di questa tecnologia – finora riservato a Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia, Cina e India – segna una trasformazione irreversibile negli equilibri marittimi del Pacifico.
Il progetto coinvolge cantieri sudcoreani e statunitensi, in particolare quello di Filadelfia, dove il gruppo Hanwha intende fornire tecnologie avanzate. Tuttavia, secondo osservatori locali, lo stabilimento americano non è attrezzato per costruire veri sottomarini, segno che l’annuncio politico precede la realtà industriale.
Il presidente Lee Jae Myung ha presentato l’accordo come un modo per alleggerire il carico delle forze armate statunitensi nella regione e, allo stesso tempo, per ottenere margini di autonomia nella gestione del combustibile nucleare. Ma il politologo Kim Dong-yup ha definito il patto una “commercializzazione dell’alleanza”: Seul si impegna ad aumentare la spesa militare e ad attrarre investimenti americani in cambio di garanzie di sicurezza, trasformando l’alleanza militare in un rapporto quasi mercantile.
Il progetto prevede che la Corea del Sud costruisca i propri reattori modulari, sfruttando competenze civili già sviluppate nel settore energetico. Tuttavia, il punto critico riguarda la fornitura del combustibile nucleare. L’arricchimento dell’uranio, vietato dagli accordi bilaterali con Washington, potrebbe ora essere oggetto di revisione. Seul sostiene che il processo servirebbe solo per alimentare i reattori navali, ma il rischio di proliferazione rimane elevato.
L’Arms Control Association di Washington ha avvertito che simili programmi richiedono “nuovi regimi di garanzie” da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e rischiano di indebolire il Trattato di non proliferazione (TNP). Il confine tra uso militare e civile, in un contesto tanto sensibile, resta sottile.
La Cina ha espresso “preoccupazione” e invitato Seul e Washington a rispettare gli impegni di non proliferazione. In realtà, Pechino teme che l’ingresso della Corea del Sud nel nucleare navale apra la strada a una nuova alleanza strategica del Pacifico, una sorta di “AUKUS esteso” dopo quello tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia.
Per la Cina, la corsa ai sottomarini a propulsione nucleare da parte di Paesi alleati di Washington, cioè Australia, Corea del Sud, forse Giappone in futuro, rappresenta un accerchiamento tecnologico e strategico che riduce i margini di manovra dell’Esercito Popolare di Liberazione nel Mar Cinese Meridionale.
La penisola coreana, già segnata da tensioni storiche, rischia di diventare il teatro di una deterrenza asimmetrica: a nord un regime dotato di armi nucleari e missili balistici, a sud una potenza tecnologica con sottomarini a propulsione nucleare ma armati convenzionalmente.
La superiorità qualitativa di Seul, sostenuta da Washington, potrebbe alimentare la paranoia di Pyongyang e spingerla a test più aggressivi. Allo stesso tempo, la scelta sudcoreana obbliga gli Stati Uniti a riconsiderare la loro stessa dottrina di contenimento: fino a che punto è possibile concedere ai propri alleati tecnologie tanto sensibili senza minare l’architettura globale del controllo degli armamenti?
Dietro il linguaggio rassicurante del governo sudcoreano, la realtà è più complessa. La Corea del Sud cerca di affrancarsi dalla tutela americana, ma il prezzo dell’autonomia è una dipendenza tecnologica ancora più profonda.
In un mondo dove la sicurezza si intreccia con la competizione economica e industriale, la corsa ai sottomarini nucleari non è solo un capitolo di geopolitica: è una nuova pagina della guerra economica per il controllo delle tecnologie strategiche.
Seul ha deciso di entrare nel club delle potenze subacquee. Ma ogni scelta di potenza, in Asia come altrove, porta con sé un prezzo che prima o poi sarà presentato.












