Coronavirus: rapporti di lavoro e debito pubblico

di Antonio Carbonelli *

Nel disegno liberista c’è la distruzione della scuola pubblica, la distruzione del sistema pensionistico, la distruzione della sanità pubblica. Mises nel 1922 sostiene che l’assicurazione pubblica contro le malattie genererebbe malattie. È ovvio, la gente ne approfitterebbe… lo dica a chi ha appena avuto un infarto, o a chi ha appena perso un arto, magari vittima di un infortunio sul lavoro. Hayek nel 1960 aggrava la dose, e sostiene che i costi di un servizio sanitario gratuito sono aggravati dal fatto che il progresso della medicina tende ad accumulare sforzi non solo per ripristinare la capacità lavorativa, ma anche per alleviare la sofferenza e prolungare la vita. In un sistema libero (cioè liberista, prosegue Hayek) bisogna guarire in fretta quelli che hanno una piena capacità di guadagno, al prezzo di una certa negligenza nei confronti dei vecchi e degli ammalati senza speranza. Applichiamo questo principio al coronavirus: significa che lo stato dovrebbe abbandonare a se stessi gli anziani e i pazienti oncologico colpiti dal virus. Dunque Hayek teorizza espressamente quella che papa Francesco chiama la cultura dello scarto. Ma tu, dimmi: la tua polizza sanitaria copre le spese di analisi e di ricovero per il coronavirus? Vai a verificare… Beh, per fortuna in Europa non ci dobbiamo porre un problema di questo genere. Ma se il liberismo continuerà a farsi strada, a piccoli passi, quel momento arriverà anche qui.
Ma perché non arriva la CIG per tutti? Il problema nella gestione dei rapporti di lavoro sta nel fatto che non sono previste cause legittime di sospensione del rapporto di lavoro per eventi di questo genere. Chi paga, dunque? Devono pagare i lavoratori, anticipando le ferie, se si può chiamare ferie lo stare reclusi in casa, o in alternativa, rinunziando alla retribuzione? O devono pagare le aziende, pagando la retribuzione in assenza di prestazione lavorativa? Deve pagare lo stato? E con quali soldi?
Ecco allora che i problemi si scaricano sugli attori economici che ne sono vittime, imprese o lavoratori che siano: ecco allora che chi può influenzare le scelte governative chiede di non chiudere le fabbriche; ecco allora che negli scorsi giorni la Ferrari ha esitato prima di chiudere: ma questo si può capire, il povero acquirente di una Ferrari di solito si deve mettere in lista per un anno o due, sarebbe insopportabile aspettare qualche mese di più in attesa che passi il virus per la soddisfazione di questo suo bisogno; ecco allora che il gruppo Fiat, che stranezza, ha chiuso a Cassino, Melfi e Pomigliano, prima che a Torino, Brescia e Mantova: e come mai? Non c’è la stessa esigenza di prevenzione anche qui?; ecco allora il sì iniziale alla catena di montaggio per chi non può distanziare i lavoratori, con le mascherine, anche se si lavora a meno di un metro di distanza, e dunque con il rischio di trasmettersi il virus; ecco allora che il governo dice usate per prima cosa le ferie: ma alcuni hanno ferie maturate, altri no, che fanno le aziende con loro? devono pagare egualmente la retribuzione?; ecco allora che i lavoratori interinali e a termine alla prima scadenza basterà non rinnovarli, e salvaguardare i rapporti di lavoro a tempo indeterminato; ecco allora che i tribunali non sono attrezzati per un lavoro a distanza, e le sentenze non possono arrivare neanche per chi attende di riavere un posto di lavoro, o una somma con cui deve vivere.
Una prima considerazione è che in queste situazioni il popolo deve avere una guida, non si può scaricare il problema sui privati, e non si può lasciare tutto all’iniziativa privata. Lo dimostrano anche i fondi raccolti in questi giorni da iniziative private, che rischiano di interferire con le priorità di intervento coordinate dalla protezione civile. Oh, cielo, mai noi paghiamo! E allora? La salute è un bene di tutti.
Ma c’è una seconda considerazione, ancora più profonda. In questi giorni non vorrei certo essere nei panni di chi ha la responsabilità delle decisioni. Ma andiamo al sodo, proviamo a immaginare quanto può costare per lo stato non ricevere entrate fiscali e contributi per due mesi e pagare la CIG a quasi tutti, anche solo per due mesi. Per l’Italia probabilmente non si va tanto lontano dall’ordine di grandezza necessario se si immagina qualcosa come il 20% del PIL annuale, circa 400 miliardi quindi. Ma se anche non è questo l’ordine di grandezza, non è questo il punto: il problema è che ci troviamo in condizione di dover chiedere ogni volta il permesso all’Europa, come un bambino deve chiedere alla mamma il permesso di comprare le caramelle. Se non venissimo da decenni di politiche che hanno lasciato salire il debito pubblico in modo sconsiderato, scaricandone il peso sulle generazioni future, non sarebbe poi un problema così grave far fronte a una singola situazione eccezionale. Colpa dei governanti del passato, dunque? Se andassimo a chiederne conto a loro, ci risponderebbero con un argomento ancora più problematico: hanno dato ascolto agli economisti, che avevano spiegato loro che la spesa pubblica è di stimolo per l’economia. Ecco dunque il punto. La situazione di questi giorni sta evidenziando il fatto che il dilemma di fondo della teoria economica del nostro tempo sta nel contrasto tra i cultori del dogma della spesa pubblica, che fa lievitare il debito pubblico, e i cultori del pareggio di bilancio, che getta nella miseria parte delle popolazioni, e i cultori di entrambe le sette economiche non sanno da che parte uscire da questo dilemma. Ma allora ci si può meravigliare, se sia l’uomo comune, sia i parlamenti e i governi non sappiano come uscirne, e navighino a vista, quando sono gli economisti, che dovrebbero spiegare come uscirne, a non saper offrire una soluzione?

* Avvocato giuslavorista e filosofo a Brescia.