di Cesare Scotoni –
Alcune considerazioni preliminari sulla fase iniziale di una presidenza cui ben pochi governi europei hanno guardato finora con favore nel primo ed in questo mandato. In questo primo anno abbiamo assistito ad un chiaro e sistematico “riposizionamento” degli USA sui Mercati globali, con l’introduzione selettiva di nuove tariffe doganali orientate a bilanciare il valore degli scambi commerciali e la contestuale pretesa di concreti programmi di investimento in quel Paese in cambio di una rimodulazione di quelle pretese. Abbiamo visto come le pressioni esercitate sulla NATO nel precedente mandato per ottenere un maggiore impegno di quei partner siano riprese con maggior successo grazie alla “grana Ucraina” che, chiuso il tema “Northstream 2” viene ora lasciata in carico a chi fu un cattivo garante nei confronti dell’ONU degli Accordi di Minsk II. Abbiamo inoltre misurata la determinazione con cui si è voluto cercare un concreto Cambio di Paradigma che fosse costruito su quegli Accordi di Abramo che sono tra i risultati più significativi del primo mandato. E che quello sforzo ritrovasse tra i protagonisti proprio quel Recep Tayyip Erdoğan, da sempre attento ai tanti “stan” che si trovano sulla Via della Seta e di cui la NATO provò a sbarazzarsi nel luglio del 2016 con un golpe eterodiretto. Un indiscusso ed ingombrante protagonista che con l’uscita di scena del clan al-Assad in Siria e la relativa ed ostentata autonomia nei confronti della Federazione Russa, ha nei fatti archiviato gli accordi di Sykes – Picot e messo in discussione gli interessi di Gran Bretagna e Francia nell’area.
Questo è sotto gli occhi di tutti, come la svalutazione del dollaro, l’ambizione di riportare la guida nella corsa all’innovazione tecnologica al centro della sfida per la supremazia del dollaro negli scambi internazionali, la battaglia per il controllo delle materie prime ed il tentativo di recuperare posizioni nella produzione e nella commercializzazione delle energie fossili.
Meno evidente forse, ma non meno destabilizzante, lo sfacciato tentativo di indebolire la coesione del Commonwealth come già fu con l’Unione Europea così come lo sforzo di prendere tempo su alcuni scenari per affrontare e vincere una sfida interna che parte dalla quantomeno controversa elezione di Joe Biden nel 2019 per riscoprire quelle profonde radici costituzionali da cui gli USA si allontanarono alla vigilia del primo conflitto mondiale.
Non è detto che gli interessi di chi scommette su un futuro multipolare diano a Trump il tempo che serve. L’Unione Europea ha dovuto rivedere le proprie ambizioni in quella partita, ma altri debbono riposizionarsi. Ora gli USA, tramontata quella “fine della storia” modesta figlia di una svista di Francis Fukuyama e linea guida della “saga dei Clinton”, cercheranno di evitare di farsi ingessare in un nuovo bipolarismo tra le due sponde del Pacifico e con la determinazione che han già mostrato, si muoveranno per costruire nuovi equilibri. Cosa che Trump ha mostrato di saper fare meglio e più tempestivamente di quanto fatto da altri dopo l’11 dicembre 2001. Certo è che, mentre gli imperi dissoltisi alla fine del primo conflitto mondiale riscoprono le proprie aree di influenza, a pagare un dazio significativo saranno invece quelle ex potenze coloniali europee sopravvissute alla propria storia ed il cui peso economico e politico è destinato a calare ulteriormente.












