Costa Rica. Rodrigo Chaves nel mirino della giustizia tra fondi neri, immunità e narco-connessioni

di Giuseppe Gagliano –

Il Costa Rica, a lungo celebrato come l’eccezione virtuosa dell’America Latina, oggi si scopre vulnerabile. Il presidente in carica, Rodrigo Chaves, è stato formalmente accusato dalla Procura generale di aver fatto ricorso a fondi illeciti durante la sua campagna elettorale del 2022. Una bufera giudiziaria che mette a nudo non solo la fragilità delle istituzioni democratiche del Paese, ma anche la crescente penetrazione di dinamiche clientelari, opache e perfino criminali nei meccanismi del potere.
Secondo l’accusa Chaves e sei esponenti di vertice del suo governo avrebbero messo in piedi due strutture finanziarie parallele, esterne ai canali ufficiali e al controllo del Tribunale supremo elettorale. Il meccanismo, secondo gli investigatori, prevedeva l’uso di un fondo fiduciario privato e conti bancari personali intestati a una terza persona, una donna priva di immunità parlamentare già sotto indagine penale. Scavalcando così ogni obbligo di trasparenza previsto dal Codice Elettorale, le attività del Partito Socialdemocratico del Progresso (PPSD) sarebbero state finanziate in maniera occulta, violando le norme fondamentali della democrazia costaricana.
L’impatto è devastante: il primo vicepresidente, il ministro degli Esteri e quattro deputati del partito di governo sono coinvolti. La Procura ha chiesto alla Corte suprema la revoca dell’immunità costituzionale per permettere l’apertura formale del processo. Se il Parlamento dovesse avallare tale richiesta, si aprirebbe un caso giudiziario senza precedenti nella storia recente del Paese.
Eppure Chaves, ex funzionario della Banca Mondiale ed economista di scuola neoliberale, continua a godere di un notevole consenso popolare. Già in passato aveva accusato le istituzioni giudiziarie di far parte di un “blocco politico ostile alle riforme”, alimentando una retorica che dipinge l’establishment istituzionale come un nemico del cambiamento. Una narrativa populista che riecheggia sinistramente quella adottata da altri leader latinoamericani per delegittimare la separazione dei poteri.
Nel frattempo il caso ha assunto contorni ancora più oscuri. Appena un giorno dopo l’annuncio dell’accusa formale a Chaves, le forze dell’ordine hanno arrestato l’ex ministro della Sicurezza e già giudice della Corte suprema, Celso Gamboa, su mandato d’arresto internazionale emesso dalla DEA americana per traffico internazionale di cocaina. Un altro duro colpo all’immagine di uno Stato che per decenni ha fatto dell’integrità pubblica il proprio marchio di fabbrica.
Gamboa non è un personaggio marginale: è uno dei più alti funzionari costaricani mai coinvolti in un’operazione antidroga internazionale, e la sua estradizione verso gli Stati Uniti segnerebbe un precedente epocale, reso possibile solo dopo la recente riforma costituzionale che autorizza l’estradizione di cittadini nazionali in casi di narcotraffico e terrorismo.
L’arresto è avvenuto insieme a quello di Edwin “Pecho de Rata” Lopez Vega, figura ben nota nel narcotraffico caraibico, a conferma di quanto la criminalità organizzata sia penetrata nei circuiti istituzionali. Il ministro della Pubblica Sicurezza, Mario Zamora, ha dichiarato che questa operazione rappresenta “l’inizio di una nuova era nella lotta al narcotraffico”. Una frase che suona come un’ammissione: finora, qualcosa era stato ignorato, o lasciato correre.
Il Costa Rica, insomma, si scopre fragile. Non più isola di legalità tra mari burrascosi, ma Paese alle prese con le stesse dinamiche corruttive, gli stessi intrecci tra potere e criminalità, che affliggono tanti altri Stati della regione. L’illusione della democrazia esemplare vacilla. E il caso Chaves-Gamboa potrebbe essere solo la punta dell’iceberg.