Crisi umanitaria in Sud Sudan. Intervista a Stefano Zannini, capo-missione nel paese di Msf

di Giacomo Dolzani –

Il Sud Sudan, fin dalla sua nascita il 9 luglio 2011, è sempre stato uno degli stati più poveri del mondo.
La sua indipendenza dal Sudan, ottenuta tramite un referendum che a gran maggioranza ha sancito la scissione di Juba da Khartoum, e la conseguente possibilità di disporre autonomamente delle proprie enormi risorse naturali, costituite principalmente da petrolio e, in minor quantità, da uranio e diamanti, non ha portato nessun tangibile vantaggio economico, anzi, la situazione, per quanto possibile, si è addirittura aggravata.
Con la perdita della sovranità su tutta la parte meridionale del paese, Khartoum è stata privata anche dei tre quarti delle sue riserve di greggio, situate principalmente in territorio sudsudanese e, in parte, in aree di confine tutt’oggi contese tra i due stati che, pochi mesi fa, sono arrivati sull’orlo di una guerra per il controllo del distretto petrolifero di Abyei.
In seguito si aprì tra i due un’altra crisi, sempre a causa dell’oro nero, riguardante la quantità di tasse che il Sud Sudan avrebbe dovuto pagare a Khartoum per l’utilizzo dei suoi oleodotti. La situazione, degenerata rapidamente, ha portato Juba a fermare l’estrazione petrolifera, praticamente azzerando il PIL e prosciugando le casse del paese, già vicino al collasso.
Nonostante degli accordi firmati tra i due presidenti ad Addis Abeba la crisi non è ancora del tutto risolta, e parecchie controversie sussistono ancora tra i due contendenti.
Non da ultime, ad aggravare ulteriormente le condizioni del paese, si aggiungono le periodiche ondate di violenza, che coinvolgono diverse aree del territorio nazionale e che costringono alla fuga enormi masse di profughi, con le conseguenti emergenze sanitarie ed alimentari; ultima in ordine di tempo quella che si sta consumando nel governatorato orientale di Jonglei.
Una delle organizzazioni presenti in Sud Sudan per apportare cure mediche ed aiuto alla popolazione è Medici Senza Frontiere.
Notizie Geopolitiche ha voluto intervistare il capo missione di MSF nel paese africano, il dottor Stefano Zannini, che ha spiegato la reale gravità della crisi umanitaria e quanto sia disperata la situazione sull’intero territorio nazionale.
– Dottor Zannini, qual è la situazione della popolazione del Sud Sudan sotto l’aspetto sanitario, nutrizionale ed economico? E’ in corso un’emergenza umanitaria?
Dopo anni di guerra e sofferenze, i bisogni medico-sanitari sono enormi, in ogni parte del Paese. Secondo i pochi dati disponibili, la mortalità materna (numero di morti materne su 100.000 nati vivi) raggiunge i 2.045/100.000, 511 volte superiore a quella registrata in Italia; il 10% dei bambini muore prima di festeggiare il quinto anno di vita; nel Sud Sudan, a causa delle distanze, della mancanza di medicinali e personale medico, il tasso di utilizzazione delle strutture mediche è di 0,2 visite/persona/anno, in altri termini ogni abitante si presenta in media una volta ogni 5 anni in una struttura medica.
I bisogni medici sono aggravati dalla situazione nutrizionale: per circa la metà della popolazione sud sudanese, l’accesso al cibo rappresenta un problema, e oltre 2 milioni di persone dipendono dalle distribuzioni fatte dalle agenzie internazionali; durante uno studio realizzato nel 2010, poco meno dell’8% dei bambini di meno di cinque anni aveva mangiato la quantità richiesta di alimenti il giorno precedente.
In uno scenario di per se già drammatico, ogni anno si presentano emergenze di ogni tipo. Dal novembre dello scorso anno, oltre 175.000 rifugiati sono arrivati in Sud Sudan, in fuga dai combattimenti nelle regioni del Sud Kordofan e Blue Nile in Sudan. Molte di queste persone sono arrivate stremate, dopo settimane di marce a piedi, mentre altre purtroppo sono morte per strada a causa della fame e della sete. In altre parti del Paese, una stagione delle piogge particolarmente intensa e lunga ha causato l’incremento dei casi di malaria e per la distruzione dei raccolti in alcune parti del Paese. Dall’agosto 2011, una nuova ondata di violenza ha sconvolto lo Stato di Jonglei, seminando morte e distruzione nelle zone dove MSF stava offrendo cure mediche alla popolazione; decine di migliaia di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie abitazioni e vivere all’aperto senza protezione contro la malaria e quasi senza cibo e acqua; le cliniche di MSF, chiuse a causa della spirale di violenza, sono state distrutte o saccheggiate, lasciando migliaia di altre persone senza accesso a cure mediche.
– Quali sono le iniziative messe in campo da MSF per aiutare la popolazione sudsudanese e quali interventi chiedete alla Comunità Internazionale e alle ONG?
MSF gestisce programmi in otto dei dieci Stati di cui è composto il Paese; le attività includono servizi di ambulatorio, programmi contro la malnutrizione, attenzione medica per le donne incinte, chirurgia, tubercolosi, e malattie tropicali “dimenticate” come la leshmaniosi viscerale (Kala Azar). Nel 2001, quasi 400.000 persone sono state curate da MSF nel Paese.
Il 2012 ha richiesto uno sforzo addirittura più grande, a causa dell’emergenza rifugiati e dell’incremento straordinario dei casi di malaria. Nei 5 principali campi rifugiati, MSF fornisce la grande maggioranza dei servizi medici; ogni mese, migliaia di persone vengono curate nelle cliniche gestite dal nostro personale, soprattutto a causa della malaria, diarree, e infezioni respiratorie. Ai bisogni medici, si aggiungono quelli igienico-sanitari; lo scarso numero di organizzazioni umanitarie presenti, ci ha obbligato a intervenire anche nella fornitura di acqua. In alcuni campi, MSF continua ad essere il maggior produttore e distributore di acqua ai rifugiati.
A partire dalla firma degli accordi di pace nel 2005, e ancora di più dopo il referendum sull’indipendenza nel 2011, l’attenzione e la priorità di una parte importante della comunità internazionale si è spostata sugli interventi mirati a sviluppare il Paese: formazione, democratizzazione, capacità gestionali. Come organizzazione umanitaria impegnata in prima linea nella risposta ai bisogni della popolazione, chiediamo che venga mantenuta attenzione e sostegno alle attività di risposta alle emergenze: il Sud Sudan è nato lo scorso anno e ha bisogno di proiettarsi verso il futuro, ma ogni giorno in questo Paese uomini, donne e bambini muoiono perché la clinica alla quale si rivolgono non ha le medicine, oppure è chiusa, oppure ancora perché le medicine sono a pagamento. I bambini non mangiano perché non hanno cibo, si indeboliscono e diventano più esposti alle malattie, le donne muoiono perché non sono assistite da personale medico durante il parto; questi sono i bisogni al momento, e queste persone non possono aspettare.
– Dopo la scissione di Juba da Khartoum le condizioni di vita della popolazione sono migliorate, peggiorate o non è cambiato nulla? Perché?
Molte delle emergenze e malattie con cui la popolazione sud sudanese convive, non hanno affiliazione politica. Esistevano prima del 2005, ed esistono a tutt’oggi.
MSF è presente nel Paese da 30 anni, e quello che vediamo è che la situazione rimane estremamente complessa: non appena si abbattono le piogge, o aumenta il livello di violenza, immediatamente i bisogni diventano enormi e le persone sopravvivono di stenti e sofferenze.
La situazione nel Governatorato di Jonglei sembra molto grave, potete descriverci cosa sta accadendo?
L’impatto della violenza sull’accesso alle cure mediche nello Stato di Jonglei è preoccupante. Un recente rapporto che abbiamo pubblicato, mette in evidenza come MSF abbia curato oltre un migliaio di vittime dirette della violenza. Donne e bambini ne sono sempre di più le vittime.
Per la prima volta da quando abbiamo aperto i nostri programmi nella zona di Pibor nel 2005, abbiamo registrato dei casi di violenza sessuale.
Le ondate di violenza che hanno sconvolto lo Stato di Jonglei sono state accompagnate da fughe massicce di persone, obbligate per settimane a dormire per terra, senza zanzariere per proteggersi contro le zanzare e in precarie condizioni igienico-sanitarie. Il numero di casi di malaria e malnutrizione è aumentato drammaticamente a seguito di questi spostamenti, e riflette l’impatto indiretto della violenza sui bisogni medici della popolazione.
Infine, con sempre maggior frequenza, le strutture mediche sono state saccheggiate e distrutte; negli ultimi 18 mesi, è accaduto con 4 delle 6 cliniche di MSF nella zona, lasciando la popolazione senza accesso alle cure e obbligandoci a ricostruire tutto d’accapo.
Ancora oggi, dopo aver abbandonato il villaggio oltre 3 mesi fa, gli abitanti di Leqwongole vivono all’aperto, e le cure mediche sono fornite dal personale di MSF in strutture mediche di fortuna e con medicinali che vengono trasportati a piedi, per ore, dagli stessi medici.
– Come può fare un cittadino ad aiutare la vostra missione?
Sul sito web di Medici Senza Frontiere (www.medicisenzafrontiere.it) è possibile trovare maggiori dettagli sulle nostre attività in Sud Sudan e sulle difficoltà che incontriamo ogni giorno.
Voglio prima di tutto ringraziare coloro che regolarmente o saltuariamente fanno delle donazioni; è grazie a loro che riusciamo a operare in un contesto tanto complesso e costoso. Parte di questi soldi vanno al nostro Fondo per le Emergenze, uno degli elementi essenziali che ci permette di rispondere immediatamente alle emergenze che affliggono il Sud Sudan e altri Paesi nel mondo. Grazie a queste risorse e al sostegno dei nostri donatori, riusciamo a portare soccorso medico già dalle prime ore e spesso nelle zone dove meno si accendono le luci dei riflettori: questo è quello che segna la differenza fra la vita e la morte per migliaia di persone.