di Francesco Giappichini –
Di fronte a una situazione economica e demografica che precipita, all’inizio di luglio il governo di Cuba ha annunciato una serie di contromisure commerciali. Di cui si discute molto soprattutto perché l’esecutivo le ha etichettate come tassello di una risorgente «economía de guerra». Si tratta invero di regole d’importanza secondaria: in primis si stabilisce l’esenzione dalle imposte doganali per alcuni prodotti importati; e poi si impone alle imprese private un prezzo massimo per la vendita al dettaglio. Tuttavia l’uso dell’espressione bellica ha dato il via ai confronti tra l’odierna crisi socioeconomica, e quel «período especial en tiempos de paz», che simbolicamente ebbe il suo apice nel Maleconazo del 5 agosto 1994, e nella successiva «crisis de los balseros».
E ciò in uno scenario in cui il Prodotto interno lordo (Pil) del 2023 si è contratto dell’1,9%, e l’inflazione formale ha raggiunto il 30% (quella reale, che tiene conto del mercato nero, è molto più alta). Mentre l’emigrazione illegale verso i soli Stati Uniti, nel biennio 2022-2023, ha raggiunto quota 533 mila, coinvolgendo di fatto il 4,8% della popolazione. Presso la stessa Asamblea nacional del poder popular, ossia il parlamento monocamerale, si è riconosciuta una significativa riduzione della popolazione; che a fine ’23 è stata stimata in 10 milioni e 55mila persone (dato simile a quello del 1985), per un calo del 10% nell’ultimo quadriennio. Dati accompagnati da numeri altrettanto critici su tasso di fecondità totale e invecchiamento della popolazione; mentre per l’anno in corso si stimano meno di 80mila nascite, record negativo dal 1959.
Inoltre secondo uno studio indipendente pubblicato dall’agenzia Efe, nello scorso biennio l’Isola avrebbe perduto il 18% degli abitanti, scesi a 8 milioni e 620mila. Numeri peraltro simili alle stime formulate da Juan Carlos Albizu-Campos, docente del Centro de estudios de la economía cubana (Ceec) dell’Universidad de La Habana: diminuzione del 17% nel biennio ’22-’23, a fronte di una popolazione residente di 9 milioni e 250mila. Andiamo però con ordine, analizzando il provvedimento che più di altri sa connotare il nuovo corso politico, all’insegna dell’«economia di guerra». E’ la nuova Ley de Migración, che rinnova la disciplina del 1976, come modificata nel 2012: in sintesi si lancia un appello a vivere e investire nel Paese, sia alla diaspora, sia agli stranieri benestanti.
Emerge una politica delle porte aperte, che prende atto della necessità delle rimesse dall’estero. E che vuole trasformare Cuba in una destinazione ove, indipendentemente da rapporti di matrimonio o filiazione con i locali, gli stranieri possano stabilirsi e spendere i propri soldi. In primis il testo elimina l’automatica designazione di «emigrados», per i cubani che trascorrano all’estero oltre 24 mesi, senza specifica autorizzazione. Inoltre questi cittadini non perderanno più lo status di residente, né i diritti di voto, all’istruzione e all’assistenza sanitaria gratuita. E soprattutto non andranno più incontro alla draconiana perdita di case, terreni e auto: tra l’altro solo dal 2012 la legge consente d’indicare i soggetti cui sarà affidata la custodia dei beni.
E non solo: avrebbero anche la possibilità di ereditare e investire nell’Isola, al netto della notoria insicurezza giuridica che vive la nazione. Più nello specifico, tutti i cubani vengono divisi in due categorie: Residente en el Territorio nacional, e Residente en el Exterior. Secondo i proponenti, la normativa punta a offrire ai cubani della diaspora (quando si trovano a Cuba, beninteso), un trattamento simile rispetto ai residenti. Di certo vi è un avvicinamento politico ai cubani all’estero, decisivi anche per gli auspicati investimenti. E tuttavia i critici del «tardo castrismo» e i dissidenti fanno notare che la legge consente al presidente e al Ministerio del Interior (Minint) di privare chiunque, e arbitrariamente, dello status di cittadinanza.
Il testo recita che i cubani «non possono essere privati della cittadinanza, eccetto che per cause legalmente stabilite»; e tra queste si indicano anche gli «atti contrari agli alti interessi politici, economici e sociali della Repubblica di Cuba». Vi è poi il capitolo della legge dedicato agli stranieri, che mira a concedere la residenza agli extranjero facoltosi, o che decidano d’invest ire, anche nella piccola e media impresa. Ed è la prima volta che il regime cubano, con l’obiettivo di attrarre capitali, prevede la concessione della Residencia permanente agli investitori stranieri. Si va così ben oltre la categoria del Residente de inmobiliaria: status che si ottiene con l’acquisto (o l’affitto) di una casa, che deve essere ubicata in appositi complessi immobiliari.
Si prevede, infatti, che possono richiedere la residenza anche gli stranieri con un’adeguata preparazione professionale, o di chiara fama internazionale nelle scienze, nello sport, nella cultura o nelle arti. Si citano poi quelli con «patrimoni significativi», nonché gli stranieri (e le famiglie) «con qualifica lavorativa e solvibilità economica che consenta loro di stabilirsi nel Paese». Possono inoltre chiedere lo status di Residente permanente quegli stranieri in possesso di beni, che permettono d’investire in progetti, statali o meno, per lo «sviluppo del Paese». In sintesi, si cerca di comprendere le categorie spesso sovrapponibili dei vip (very important person), dei ricchi, dei professionisti di successo, e degli investitori.
E tuttavia si fa riferimento a svariate condizioni, il cui rispetto, al netto dei ricorsi, sarà valutato unilateralmente dall’apparato al potere; che è de facto libero di espellere chiunque non gradisca. E mentre sotto varie forme prende corpo l’«economía de guerra», e la dissidenza ricorda il terzo anniversario delle proteste dell’11 luglio ’21, gli analisti confrontano l’attuale crisi con quella degli anni Novanta. Quando però la sola comparsa del Líder máximo Fidel Castro in mezzo ai tumulti, era capace di convertire il caos in manifestazioni a suo favore: «Esta calle es de Fidel» cominciò a udirsi il 5 agosto ’94, dopo la sua apparizione. Secondo una corrente di pensiero, la crisi legata all’implosione sovietica fu peggiore: il Pil, tra il ’90 e il ’93, si contrasse addirittura del 35%, in concomitanza con un’esplosione del deficit fiscale al 30 per cento. E soprattutto, si aggiunge, l’economia era completamente statalizzata e non diversificata, le entrate del turismo erano scarse, e non arrivavano rimesse. Altri osservatori si dicono invece certi che il panorama attuale sia più penoso: l’apparato statale (istruzione, sanità e servizi sociali) è fiaccato da una penuria che dura da oltre 30 anni, le infrastrutture sono irrimediabilmente deteriorate, e i centri produttivi sono alla deriva; si pensi al crollo della produzione dello zucchero. Senza considerare un corpo sociale non più omogeneo, ma fiaccato da disillusione politica e da un esodo migratorio che drena le energie del Paese.