di Dario Rivolta –
Dario Rivolta, già deputato, analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali, si incontrò in più occasioni con Michail Gorbaciov e con Boris Eltsin, diventando quindi testimone diretto degli ultimi istanti dell’era sovietica e di quella transizione che portò alla nascita della Federazione Russa. A Notizie Geopolitiche ha voluto raccontare i fatti ripuliti della retorica di un occidente di sovente interessato a influenzare la percezione della realtà.
Pochi giorni orsono cadevano i venticinque anni dal tentato putsch di Mosca, che fallendo creò le condizioni per la fine dell’Unione Sovietica e la nascita della nuova Russia. Fu Boris Eltsin che mandò a monte l’operazione montata dal KGB di allora salendo sopra un carro armato e arringando da lì i soldati e la folla consenziente.
Naturalmente, come in tutte le rievocazioni, si sono sprecati i commenti e gli articoli su varie testate e, direi tutti, hanno abbondato con toni elogiativi verso Michail Gorbaciov, la sua “perestroika” e la sua “glasnost”. Perfino in Russia, dopo anni di una velata emarginazione, lo si rivaluta inventando retroscena del tutto improbabili. La narrazione di oggi racconta che il giorno prima del golpe si sarebbe dovuto approvare una legge che prevedeva il “pensionamento” di tutti i vecchi “gerarchi” del partito e che ciò fosse il frutto di un accordo tra lo stesso Gorbaciov, Eltsin e un terzo personaggio che non saprei. Il KGB ne venne a conoscenza e ciò che successe sarebbe stato un tentativo per impedire la sua approvazione da parte dei potenziali estromessi. Peccato che, anche dopo il fallimento di quella manovra, nessuno ne abbia mai parlato e solo ora venga offerta quell’interpretazione. Qualcosa mi dice che il metodo sia molto simile, seppur all’inverso, a quanto recentemente successo in Turchia con la storia dell’abbattimento dell’aereo russo da parte di un pilota turco. Immediatamente dopo il fatto il governo di Ankara rivendicò di aver dato l’ordine e il pilota fu glorificato. Tuttavia la sopravvenuta necessità di riallacciare positivi rapporti con la Russia ha fatto sì che le carte in tavola dovessero cambiare e il pilota fu accusato di aver fatto di testa sua scaricando il presidente Recep Tayyp Erdogan e soci da ogni responsabilità.
A Mosca si devono fare i conti con un’immagine internazionale di Vladimir Putin che non è certo nel suo momento migliore e il fatto che Gorbaciov si sia più volte espresso con parole favorevoli all’azione politica dell’attuale presidente è stata cosa vista con favore dal Cremlino. Il prestigio di cui l’ex segretario del PCUS continua a godere in occidente diventa così funzionale al miglioramento della percezione di Putin all’estero.
Purtroppo, anche se una miriade di giornalisti di tutto il mondo ha continuato ad esaltare l’anziano leader e ciò che fece durate la sua presidenza dell’URSS, la verità storica non sempre è d’accordo con il resoconto di cronisti superficiali o disinformati o in qualche modo interessati.
Per motivi di lavoro (non facevo ancora politica attiva), ho avuto la fortuna di recarmi spesso in Unione Sovietica ed ho avuto l’opportunità di incontrare, in più occasioni, sia l’ultimo presidente sovietico che il primo presidente russo. Frequentemente mi capitava di parlare anche con persone di varia estrazione sociale o professione: dai taxisti ai politici, dai giornalisti agli intellettuali di vario genere, dai militari ai commessi di negozio. L’idea che ho potuto farmi di come siano andati i fatti è, alla fine, molto diversa da quella raccontataci da molti dei numerosi giornalisti accreditati a Mosca in quegli anni. Bisogna sapere che, abituati alle procedure sovietiche, quasi tutti i corrispondenti stranieri (solo uno sparuto numero di loro parlava russo) componevano i propri pezzi dopo essersi limitati a presenziare le conferenze stampa del Cremlino e, nel migliore dei casi, a conversare con gli interpreti o il personale che il regime assegnava loro. Si spiega così, probabilmente, la lettura monocorde, scarsamente informata e totalmente elogiativa dell’azione intrapresa in quegli anni da Michail Sergeevic Gorbaciov. Poche furono le eccezioni e tra queste ricordo l’Economist. Tra gli italiani solo Giancarlo Lehner, che scriveva per l’Avanti. Era ovvio che per il semplice lettore era difficile andare oltre il muro di peana eretto dalla gran parte della stampa occidentale, e il mito di un “democratico” presidente riformatore si formò e crebbe.
In realtà, subito dopo i primi anni, ne’ Gorbaciov ne’ la moglie Raissa godevano più di popolarità presso il cittadino medio sovietico. Fu solo in occidente che si coltivò il loro mito e in Italia il PCI incoraggiò questa lettura perché pensava, sbagliando, di trovarvi conferma al proprio “eurocomunismo”. Piaceva anche il fatto che per la prima volta esistesse una “prima donna” russa e che il Cremlino sembrasse ragionare con i nostri stessi schemi. I sovietici però non lo amavano, non per nostalgia dei tempi brezneviani o perché contrari a una vera riforma del sistema. Semplicemente, comprendevano che la perestroika gorbacioviana, pur apportando cambiamenti col passato, era solo un tentativo di maquillage avente lo scopo di salvare le basi del sistema e il predominio del Partito Comunista. Il Paese era economicamente in disfacimento perché non aveva i mezzi finanziari da investire nei nuovi armamenti per tener testa alle “guerre stellari” lanciate da Reagan e contemporaneamente non riusciva a soddisfare la crescente domanda di beni di consumo che saliva dalla popolazione. L’unica strada che rimaneva al governo era di rinunciare alla corsa verso i nuovi armamenti, ma per poter fare ciò si dovevano lanciare messaggi di pace e conquistarsi la benevolenza dell’opinione pubblica occidentale. Così, pensavano, si sarebbero liberate maggiori risorse interne da investire nell’indispensabile ammodernamento di tutto il sistema produttivo.
Nacque allora anche la “glasnost”. In occidente si cominciò a scrivere che la democrazia stava finalmente facendosi strada in Unione Sovietica e oggettivamente la gente aveva cominciato a parlare con maggiore libertà. Questo clima e le aperte contestazioni che si manifestavano portarono però con sé l’indebolimento dello stesso Partito Comunista e dell’azione di controllo che esercitava sulla società e sullo Stato. Anche i militari ne furono disorientati e io ricordo conversazioni in cui si confessavano oramai inutili e sfiduciati. A un certo punto, dopo il disfacimento del Comecon, del Patto di Varsavia e con l’aumentare di spinte secessioniste nelle varie Repubbliche federate sempre meno obbedienti agli ordini di Mosca, il presidente del Soviet supremo capì di non essere più in grado di controllare gli eventi.
Fu così che qualcuno pensò a un colpo di stato affidato al KGB. Non contro Gorbaciov però, ma con il suo consenso o addirittura la sua complicità. Il viaggio in Crimea fu concordato e, almeno all’inizio, lui non subì alcun limite. I golpisti dovevano fare il “lavoro sporco”: riaffermare l’ordine e l’autorità centrale del PCUS dando un stretta di vite alle nuove libertà e provvedendo ad eliminare dalla scena coloro che “attentavano” alla tenuta del sistema. Ovviamente era un’operazione in contrasto con l’immagine internazionale così faticosamente acquisita da Gorbaciov ed occorreva che a farlo fossero altri. Una volta “regolarizzata” la situazione, in un modo o nell’altro Michail Sergeevic sarebbe tornato, vergine, al suo posto con il plauso mondiale. Fantapolitica? Può darsi, ma (stranamente) fu lo stesso pensiero che, giorni dopo, l’ex ministro degli Esteri Eduard Shevardnadze confidò in privato a un nostro diplomatico in servizio a Mosca. Un’interpretazione più o meno simile mi venne data, anni dopo, da Alexander Yakovlev (quello che fu chiamato l’”Architetto della Perestroika”) quando lo incontrai in una conferenza internazionale. Yakovlev non risparmiò allora, seppur in una conversazione totalmente privata, critiche e accuse di inadeguatezza verso l’ex-amico con cui aveva rotto proprio per la sua mancanza di coraggio sulla via delle riforme. In aggiunta a queste testimonianze, ricordo che il secondo giorno del putsch si sa di una telefonata di Gorbaciov con il capo di un grosso Kombinat, il che dimostrava una certa libertà di comunicare, incompatibile con chi si fosse trovato agli arresti in Crimea.
Qualcuno ha sostenuto che Boris Nikolaevic Eltsin, ambiziosissimo e spregiudicato, abbia approfittato di quegli eventi per prendere il suo posto e cita a testimonianza il gesto prepotente con cui, fallito il putsch, tolse a Gorbaciov il microfono e lo allontanò dal palco. Chi ricorda questi fatti non sa, o non ammette, che la convinzione di complicità con i putschisti fu un sentire comune tra i russi di allora e dimentica che l’inimicizia politica tra Eltsin e lui era di molti mesi antecedente a quei giorni. Boris Nikolaevic, con il quale ebbi il piacere di diversi incontri privati, aveva capito che il sistema comunista era già fallito e rimproverava al segretario del PCUS di non volere girare definitivamente pagina.
Eltsin, come lo conobbi, era un vero patriota russo desideroso di far uscire il proprio Paese dal disastro economico e sociale in cui si trovava. Appena scoppiato il tentato golpe, si rifugiò all’interno della Casa Bianca, sede della presidenza russa, per uscirne all’arrivo dei carri armati ben sapendo di correre un forte rischio per la sua stessa vita. Era un uomo coraggioso e se la sua presidenza finì poi male in mezzo a scandali e ruberie, la responsabilità non fu soltanto sua ma anche di quell’occidente che, invasato dalla propaganda gorbacioviana, lo descriveva come un usurpatore, facendo di tutto per affossarlo. Che l’atteggiamento dei governi occidentali, in primis quello americano, fosse un errore lo dimostreranno i fatti successivi e la stessa guerra fredda che alcuni nostri nostalgici continuano a praticare.
A conferma di tutto ciò basta ricordare che l’ex presidente americano Richard Nixon, criticabile per tante cose ma non certo privo di intelligenza politica, durante l’anno precedente agli eventi del ’91 andò a Mosca rimanendovi circa un mese e, al suo ritorno in patria, si mise a svolgere una forte azione lobbistica a favore di Eltsin e contro Gorbaciov.
Eltsin.
Quel che certamente non giocava a favore del rapporto tra i russi e Michail Sergeevic Gorbaciov era il suo modo di parlare la lingua russa. Nonostante fosse corretto nella sintassi, la sua cadenza e il suo accento suonavano alle orecchie russe come alle nostre lo strano italiano di De Mita. Come conseguenza il suo eloquio appariva un po’ ridicolo e gli toglieva una parte di credibilità. A questo suo piccolo handicap, a un certo punto, si aggiunse la campagna contro l’alcolismo. Su pressioni di un influente membro del Soviet supremo, tale Ligaciov, impose la distruzione di tutte le bottiglie da mezzo litro normalmente usate per la vodka e l’estirpazione dei vitigni a vino nella repubblica Moldava, in Armenia e in Georgia. Non saprei dire se questi ultimi ordini furono eseguiti, ma l’alcool sparì da tutti i magazzini dell’URSS, salvo che nei Berioska (negozi autorizzati a vendere in valuta straniera e quindi riservati a forestieri e ai pochi membri della nomenklatura). Il risultato fu che, ben presto, in tutti i negozi sparì anche lo zucchero perché chiunque potesse farlo cercò di fabbricarsi l’alcool in casa. Come aggravante a suo carico, correva voce che Gorbaciov fosse astemio.
Eltsin già nel 1987 si era addirittura dimesso dal Politburo per dissenso sulla mancanza di vere riforme. Il suo fu il primo ed unico caso nella storia sovietica, ma fu la dimostrazione della frattura esistente tra i riformatori radicali e i vecchi comunisti propugnatori di un semplice maquillage. La gente lo apprezzò e alle prime elezioni popolari per la presidenza della Repubblica Russa federata nell’Unione Sovietica fu eletto con un plebiscito.
Tra le barzellette che all’epoca giravano a Mosca ce n’era una che rendeva l’atmosfera corrente, secondo cui un giorno arrivò al Politburo una lettera del presidente dell’Estonia che, adducendo gravi provocazioni da parte della vicina Finlandia, chiedeva l’autorizzazione a dichiarare la guerra contro quest’ultima. Senza nemmeno aspettare la risposta da Mosca, il governo di Tallin dichiarò autonomamente la guerra e, appena la Finlandia mobilitò il proprio esercito, una delegazione governativa estone si recò a Helsinki per comunicare la propria resa immediata ponendo la sola condizione di essere occupata dalle truppe finlandesi e chiedendo la conseguente annessione.
Questa storiella era un sintomo delle spinte centrifughe sempre più forti evidenziate quando il ministro degli Esteri ungherese, dopo aver avuta l’autorizzazione di Gorbaciov, autorizzò il passaggio in Austria di tanti cittadini tedeschi in fuga dalla Germania dell’Est. Fu quell’esodo per via traversa (i movimenti fuori cortina dei cittadini dei Paesi membri del blocco sovietico erano praticamente proibiti) ad aprire poi la strada per il crollo del muro di Berlino, oramai diventato inutile.
All’inizio del 1991 qualunque osservatore dei fatti sovietici, se scevro da pregiudizi ed in buona fede, aveva capito che il sistema non avrebbe retto più per lungo tempo e che il futuro del Paese apparteneva a uomini come Eltsin. Da lì l’azione lobbistica, purtroppo infruttuosa, di Nixon. Proprio in quel periodo con l’intento di aprirsi contatti politici in Europa (magari informali, ma indipendenti da quelli ufficiali dell’URSS), durante un nostro incontro Eltsin mi chiese se fossi in grado di organizzargli un incontro tra il suo ministro dell’Industria e gli omologhi italiano e francese. Rientrato in Italia, presi subito contatto con l’allora nostro ministro Adolfo Battaglia e gli sottoposi la richiesta. Grazie alle buone introduzioni a Parigi di un mio collaboratore di allora, Emmanuel Gout, facemmo la stessa cosa in Francia. I francesi risposero quasi subito dicendo che, in modo puramente informale, il loro ministro sarebbe stato disponibile ad un incontro. Non si poteva nemmeno escludere che in quella occasione passasse di lì “per caso” il ministro degli Esteri.
In Italia invece, e solo dopo qualche giorno, Battaglia mi disse che, sentito il ministro degli Esteri Giulio Andreotti, il nostro Paese rifiutava perché gli unici interlocutori per il nostro governo restavano i rappresentanti ufficiali di uno Stato sovrano e non di una Repubblica federata. Come nota a margine, va ricordato che qualche mese più tardi Andreotti si dichiarò subito disponibile a riconoscere i golpisti sovietici come sue naturali controparti politiche. Alla fine la missione del ministro russo, per motivi non comunicatimi, non avvenne né a Roma né a Parigi, ma il fatto in sé dimostra ancora la diversa lungimiranza ed il diverso spessore che a volte esiste tra le classi politiche dei vari Paesi.
La presidenza Eltsin, perfino dopo il crollo dell’Unione Sovietica, fu boicottata dai media e da quasi tutti i governi occidentali e, anche quando si salvava la forma, nessuno volle credere alla possibilità di creare un rapporto costruttivo con la nuova realtà moscovita. In occasione della visita del presidente russo al Parlamento europeo, i nostri geniali rappresentanti arrivarono addirittura a subissarlo di fischi.
Lassù, invece, le cose andavano diversamente. L’occidente, diventato un miraggio apparentemente a portata di mano per ogni cittadino russo, fece sì che qualunque cosa suonasse americana fosse enormemente popolare. In quei mesi a Mosca e dintorni ognuno era pronto a vedere l’ex nemico come un nuovo, buono e invidiabile amico. Al contrario negli Stati Uniti alcuni nostalgici della guerra fredda e i malintenzionati pensarono di poter approfittare, economicamente e politicamente, della debolezza del nuovo Stato e la sua umiliazione fino alla dissoluzione divenne l’obiettivo di qualcuno di loro.
Ogni trasformazione radicale porta con sé gravi problemi e la Russia si trovò di fronte contemporaneamente allo sfaldamento dell’ex impero e a una feroce crisi economica che svuotò tutti i negozi e portò alla chiusura di molte di quelle che erano state le grandi imprese. Senza adeguati aiuti occidentali Eltsin, economicamente manchevole, si affidò a coloro che furono in seguito chiamati “oligarchi”. Costoro, grazie alla complicità di politici incapaci e/o corrotti, divennero ben presto i veri padroni del Paese. Una delle stesse figlie di Eltsin, sposata con un uomo senza scrupoli, partecipò al saccheggio. L’avvicendarsi di vari primi ministri non servì a nulla e i Berezovski e compagni di turno si misero a fare il bello e cattivo tempo impoverendo il Paese a proprio unico beneficio. La popolarità di Eltsin crollò rovinosamente e lui stesso, a un certo punto, si rese conto di non poter più reggere la situazione. Fu allora che i suoi più stretti consiglieri (e qualche oligarca convinto di poterlo controllare a proprio piacimento) suggerirono la nomina di Vladimir Vladimirovic Putin.
Per loro disgrazia, l’uomo cresciuto nel KGB (da cui si era formalmente dimesso mesi addietro) dimostrò di non avere alcuna intenzione di diventare la marionetta di qualcuno e, appena gli fu possibile, dichiarò guerra a tutti gli oligarchi che volevano dominare sulla politica, eliminandoli uno alla volta.
Il resto è storia recente.
Oggi, in occidente Putin ha ammiratori (pochi) e denigratori (tanti), ma tutti sono costretti ad ammettere che ha saputo rimettere la Russia in carreggiata, ridare l’orgoglio di appartenenza al suo popolo, approfittare (nei tempi buoni) degli alti prezzi del petrolio per fare ripartire la macchina economica e infine ridare un ruolo internazionale a un Paese che è pur sempre il più esteso del mondo ed il più ricco di materie prime. Chi ha un po’ di memoria e vuole confrontare la Russia di oggi con quella degli ultimi anni della presidenza Eltsin potrà ricordare cosa significava per la nostra tranquillità il regime di semi-anarchia in cui armi russe venivano vendute a chiunque, i siti nucleari erano in rovina e nessuno sapeva come o chi li stesse controllando. Con il forte rischio che parte del materiale nucleare pericoloso finisse in mani criminali.