Due anni senza Giulio Regeni. In Egitto ancora più repressione in vista delle elezioni

di Vanessa Tomassini

Era il 25 gennaio 2016 quando al Cairo si perdevano le tracce di Giulio Regeni, il giovane ricercatore friulano che in Egitto stava lavorando a un dottorato di ricerca sui sindacati indipendenti. Giulio era un ragazzo che amava la vita, sorridente e circondato di amici, come appare nella sua ultima foto scattata il giorno del suo compleanno. Dopo che i suoi genitori sono volati nella capitale egiziana, dopo nove giorni di ricerche incessanti, il corpo di Giulio veniva ritrovato, irriconoscibile in volto e visibilmente torturato tra le sterpaglie di un fossato lungo la strada periferica che collega il Cairo con la città d’Alessandria.
Dopo due anni migliaia di italiani si stringono intorno alla famiglia continuando a chiedere verità per Giulio Regeni, così alle 19,45 del 25 gennaio in decine di piazze si accenderanno mille luci, mentre i monumenti si tingeranno di giallo. Dopo che gli inquirenti italiani si sono fatti largo tra depistaggi e false piste senza poter contare su una sincera e chiara collaborazione da parte dei colleghi egiziani, in questi giorni sul sito dell’intelligence civile egiziana è spuntato un nuovo documento, acquisito oggi agli atti della Procura di Roma che si occupa del caso. Nel testo si legge che Regeni “è accusato di spionaggio per conto dei servizi informativi britannici e di organizzazione con soggetti terzi per destabilizzare il Paese in occasione dei festeggiamenti per il quinto anniversario della rivoluzione di gennaio”. Nel documento, che descrive anche un “profilo generale della personalità” del nostro connazionale, c’è l’elenco degli effetti personali trasferiti insieme al prigioniero e tra questi anche un certificato medico che assumerebbe fondamentale importanza, in quanto attesterebbe il “buono stato di salute psicofisica” di Giulio e “l’assenza di lesioni, tranne una ferita sanguinante di un centimetro con ematoma sulla fronte dovuta all’urto della testa contro il rubinetto dell’acqua durante il bagno del mezzogiorno di lunedì 29 gennaio 2016″, prima di finire nelle mani dell’intelligence militare del presidente al-Sisi.
Il caso di Giulio Regeni non è un caso isolato, come ha perfettamente illustrato Gianluca Costantini su l’Internazionale oggi, Giulio è “morto da egiziano”. Il comandante e politico Abd al-Fattah al-Sisi in vista delle prossime elezioni, previste per marzo e aprile, nel corso del 2017 ha intensificato la sua politica repressiva. “Sembra che l’applicazione della violenza e della repressione per decimare lo stato di diritto e l’opposizione pacifica sia la realizzazione principale di al-Sisi”, ha detto Sarah Leah Whitson, direttore del programma Medio Oriente presso Human Rights Watch, aggiungendo che “per come stanno le cose, il giro di vite del governo continuerà a soffocare le legittime aspirazioni e i diritti dei cittadini”. Tanto per cominciare, al-Sisi ha dichiarato lo stato di emergenza a livello nazionale ad aprile dell’anno scorso dopo gli attentati alle chiese egiziane da parte di Daesh, che ha ucciso 47 persone nella Domenica delle Palme. A gennaio 2018, l’ha esteso ancora, la legge di emergenza del 1958 conferisce poteri incontrollati alle forze di sicurezza per arrestare e detenere persone, e consente al governo di imporre la censura sui media ed ordinare sgomberi forzati. Le autorità hanno usato le violente leggi antiterrorismo per collocare centinaia di persone sulle liste dei terroristi e per impossessarsi dei loro beni senza un giusto processo, mettendo così in silenzio qualsiasi eventuale avversario politico del generale. Al-Sisi ha anche ratificato una nuova legge sulle associazioni a maggio che, se attuata, potrebbe eliminare il limitato spazio rimanente per i gruppi indipendenti, come i sindacati su cui Giulio sembrerebbe stesse raccogliendo informazioni.
La legge criminalizza anche il lavoro delle organizzazioni non governative, nel caso operino o ricevano fondi senza l’approvazione del governo. “A ottobre – si legge nel report annuale di HRW- il governo ha ripristinato i famigerati tribunali di sicurezza dello Stato di emergenza, le cui decisioni non sono soggette a ricorso. Le autorità hanno deferito i detenuti politici a questi tribunali, anche per reati minori”.
Ma non è finita qui: nel 2017 i procuratori militari hanno proceduto verso centinaia di civili, compresi donne e bambini. In 3 anni il numero di civili in procedimenti militari ammonta ad oltre 15mila; la Corte di cassazione ha confermato le condanne a morte di almeno 22 persone, mentre la Corte suprema di appello militare ha confermato altre 19 condanne a morte che sono state successivamente eseguite. Il governo di al-Sisi ha trattenuto circa 17 giornalisti in carcere e bloccato centinaia di siti Web di notizie. Le autorità hanno anche arrestato o accusato almeno 57 lavoratori nel 2017 solo per scioperi e proteste pacifiche sul posto di lavoro; le forze di sicurezza come abbiamo già detto hanno arrestato oltre 75 persone gay e transgender e attivisti Lgbt, mentre un video risalente ad aprile dello scorso anno mostra ufficiali dell’esercito e membri delle milizie filo-esercito che eseguivano detenuti bendati nel nord Sinai. Tutto questo ovviamente nel silenzio della comunità internazionale e degli alleati del presidente egiziano come l’Italia che teme di perdere la collaborazione egiziana nella crisi libica e nel controllo dei flussi migratori.