Eau. MBZ e il nucleare iraniano: gli Emirati tra diplomazia e timori di guerra

di Giuseppe Gagliano

Nel cuore del Golfo, dove gli equilibri si muovono come sabbie sotto il vento, gli Emirati Arabi Uniti si stanno ritagliando un ruolo sempre più centrale nella partita geopolitica del Medio Oriente. Al centro di questa strategia c’è lo sceicco Mohammad Bin Zayed al-Nahyan (MBZ), presidente degli Emirati e architetto di una politica estera che alterna pragmatismo e ambizione. Oggi, Abu Dhabi guarda con apprensione alle minacce di attacchi aerei israeliani contro gli impianti nucleari iraniani e si schiera a favore dei colloqui tra Stati Uniti e Iran, nel tentativo di scongiurare un’escalation militare che potrebbe travolgere la regione. Ma dietro questa posizione, c’è molto più di un semplice desiderio di pace: c’è un piano, un calcolo, una visione che riflette le priorità di un paese deciso a non restare spettatore in un gioco troppo grande.
Le preoccupazioni degli Emirati non nascono dal nulla. Le recenti minacce di Israele, che considera il programma nucleare iraniano una linea rossa invalicabile, hanno alzato la temperatura in un’area già segnata da tensioni. Un attacco aereo su Natanz o Fordow, i principali siti nucleari di Tehran, rischierebbe di scatenare una rappresaglia iraniana, con missili e droni che potrebbero colpire non solo Israele, ma anche le monarchie del Golfo, Emirati inclusi. MBZ, che ha trasformato le forze armate emiratine in una delle più avanzate della regione, sa bene che nemmeno i sistemi di difesa aerea Patriot o THAAD possono garantire una protezione totale. E poi c’è l’economia: gli Emirati, con la loro economia diversificata, il turismo di lusso e i progetti futuristici come NEOM, non possono permettersi il caos regionale che un conflitto aperto porterebbe.
Ecco perché MBZ ha deciso di sostenere attivamente i negoziati tra Stati Uniti e Iran, mediati dall’Oman, che si terranno a Roma in questi giorni. Secondo fonti diplomatiche, il presidente emiratino vede nei colloqui una chance per stabilizzare la regione senza ricorrere alle armi. Ma non è solo altruismo. Abu Dhabi vuole posizionarsi come un interlocutore chiave, un ponte tra Washington e Tehran, capace di influenzare gli esiti di una partita che tocca direttamente i suoi interessi. Gli Emirati, del resto, hanno già dimostrato di saper navigare acque agitate: la normalizzazione dei rapporti con Israele tramite gli Accordi di Abramo nel 2020, orchestrata con il sostegno di Donald Trump, è stata una mossa audace che ha ridisegnato le alleanze regionali. Allo stesso modo, il riavvicinamento con l’Iran, iniziato nel 2023 e guidato dal fratello di MBZ, lo sceicco Tahnoon bin Zayed, consigliere per la sicurezza nazionale, risponde a una logica di pragmatismo: meglio un dialogo, per quanto difficile, che un conflitto alle porte.
Il piano di MBZ, tuttavia, non è privo di ostacoli. Gli Emirati guardano con scetticismo ai risultati dei negoziati finora condotti tra Stati Uniti e Iran. Le passate esperienze, come il JCPOA (l’accordo nucleare del 2015), hanno lasciato Abu Dhabi insoddisfatta: l’accordo, secondo i decisori emiratini, non ha affrontato a sufficienza le ambizioni egemoniche di Tehran né il suo programma missilistico, che rappresenta una minaccia diretta per il Golfo. Inoltre, l’uscita unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo nel 2018, sotto la presidenza Trump, ha rafforzato la convinzione che qualsiasi nuovo patto debba includere garanzie più solide, non solo sul nucleare, ma anche sul comportamento regionale dell’Iran, dal sostegno agli Houthi in Yemen alle milizie sciite in Iraq e Siria.
C’è poi la questione americana. Gli Emirati hanno un rapporto complesso con Washington. Da un lato, gli Stati Uniti restano il principale alleato militare, con la base di Al Dhafra che ospita migliaia di truppe americane. Dall’altro, Abu Dhabi non ha mai digerito l’apparente disimpegno americano dal Medio Oriente durante le amministrazioni Obama e Biden, né la riluttanza a rispondere con forza agli attacchi iraniani, come quello del 2019 alle petroliere al largo delle coste emiratine. Con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, MBZ vede un’opportunità: il presidente americano, che ha già dimostrato di preferire la diplomazia spettacolare alla guerra (si pensi ai suoi incontri con Kim Jong-un), potrebbe essere più incline a un accordo con l’Iran, ma solo a patto di ottenere concessioni significative. Gli Emirati, in questo scenario, vogliono essere non solo spettatori, ma co-autori del processo, garantendo che i loro interessi, sicurezza, stabilità economica, contenimento dell’Iran, siano al centro della discussione.
Il futuro ruolo degli Emirati, secondo Abu Dhabi, sarà quello di un mediatore discreto ma influente. A differenza dell’Arabia Saudita, che ha un approccio più conflittuale con l’Iran, gli Emirati preferiscono la diplomazia morbida, fatta di incontri ad alto livello e canali riservati. Lo sceicco Abdullah bin Zayed, ministro degli Esteri, ha già avuto colloqui con il suo omologo iraniano Abbas Araghchi, e la visita di MBZ al presidente iraniano Masoud Pezeshkian al vertice BRICS di Kazan, nell’ottobre 2024, ha segnato un momento storico. Questi gesti non cancellano la diffidenza – MBZ considera l’Iran una minaccia, soprattutto per il suo sostegno ai gruppi islamisti come i Fratelli Musulmani, che gli Emirati combattono senza sosta – ma aprono spiragli per un dialogo che potrebbe ridurre i rischi di un conflitto.
Resta da vedere se il piano di MBZ funzionerà. Le incognite sono molte: la posizione intransigente di Israele, che potrebbe sabotare i negoziati con azioni unilaterali; la volontà dell’Iran di accettare limitazioni al suo programma nucleare; e l’imprevedibilità di Trump, che alterna minacce di “massima pressione” a promesse di soluzioni diplomatiche. Gli Emirati, dal canto loro, sanno di giocare una partita ad alto rischio. Ma in un Medio Oriente dove ogni errore può costare caro, MBZ sembra deciso a scommettere sulla diplomazia, sperando che il dialogo prevalga sulle bombe. Perché, come sanno bene ad Abu Dhabi, in un conflitto regionale non ci sarebbero vincitori, solo macerie.