EDITORIALE. Trump e i migranti: rileggere Steinbeck

di Giovanni Ciprotti

Negli Stati Uniti una parte degli uffici federali ha chiuso i battenti a causa del braccio di ferro tra il presidente Trump e il Congresso sull’approvazione del bilancio federale. Non è la prima volta che accade e non sarà l’ultima.
Il motivo principale che ha portato al conflitto istituzionale consiste nello stanziamento di circa 6 miliardi di dollari richiesto da Trump per potenziare il muro che divide Stati Uniti e Messico e ridurre, se non arrestare, il flusso di migranti che dal Messico e dai paesi centroamericani tentano di entrare negli Usa.
Migranti come quelle poche migliaia di disperati che, fuggiti dall’Honduras e dopo aver attraversato a piedi il Guatemala e il Messico, un paio di mesi fa si sono visti fronteggiare dalle truppe che Trump aveva inviato a sbarrare loro la strada.
Scappavano dalla miseria e dalla violenza del loro paese, l’Honduras, uno dei paesi più poveri e pericolosi dell’America centrale. Una regione da più di un secolo dominata dalle regole, dalle aziende (come la United Fruit) e dalle forze armate statunitensi; un’area che Washington ha sempre considerato il proprio “cortile di casa” e se ne è servito a piacimento, a volte sovvertendo governi legittimamente eletti e spesso sostenendo dittatori di ogni specie, purché utili nella difesa degli interessi economici nordamericani e, durante la Guerra fredda, nella battaglia contro il movimento comunista internazionale.
Come accadde negli anni Ottanta del XX secolo, quando l’Honduras divenne la base in cui venivano addestrati e da cui partivano i guerriglieri Contras per tentare di rovesciare il governo comunista in Nicaragua.
Se oggi un fiume di persone fugge dall’Honduras per cercare al nord un futuro migliore, la responsabilità non ricade soltanto sui governanti honduregni incapaci e corrotti, ma anche sulla Casa Bianca, benché non direttamente su Donald Trump.
Discorsi simili potrebbero valere per quella marea di persone che ogni giorno attraversano il Mediterraneo su imbarcazioni strapiene di gente di ogni età per tentare di approdare sulla sponda settentrionale, quella europea.
Ma, andando indietro con la memoria, potremmo ritrovare analogie con chi, tra i nostri bisnonni, partiva all’inizio del Novecento da Genova o da Napoli su bastimenti diretti in America e sbarcava a Ellis Island con la speranza di superare i controlli dei funzionari del Servizio Immigrazione statunitense.
Dinamiche simili riguardavano anche la migrazione interna agli Stati Uniti descritta da John Steinbeck alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, nel suo “Furore”. In quel romanzo i protagonisti erano gli “Okies”, gli agricoltori dell’Oklahoma che avevano perso le fattorie e i campi, requisiti dalle banche per i debiti non pagati, una situazione piuttosto diffusa dopo il Grande Crollo del 1929. Percorrevano più di 2mila chilometri, lungo la Route 66, per arrivare in California in cerca di un lavoro come raccoglitori. Purtroppo per loro, spesso trovavano porte chiuse, l’ostilità e, non di rado, bastonate e fucilate dei gruppi di agricoltori locali che cercavano di rispedirli indietro perché li vedevano come pericolosi concorrenti.
La storia spesso si ripete, benché non esattamente in tutti gli aspetti. Ma le sofferenze patite dai migranti africani e asiatici che oggi desiderano costruirsi una vita dignitosa in Occidente sono le stesse sperimentate dagli Okies mentre attraversavano mezza America per arrivare in California o dai nostri avi che lasciavano poderi polverosi e tutt’altro che fertili per improvvisarsi operai non specializzati nelle fabbriche di New York o Chicago.
E le discriminazioni e l’ostilità riservate agli immigrati extraeuropei nelle nostre città ricordano quelle di cui erano fatti oggetto gli “Okies” negli anni Trenta o gli emigrati italiani negli Stati Uniti di inizio Novecento. Basterebbe dare un’occhiata al saggio della storica Patrizia Salvetti, “Corda e sapone. Storie di linciaggi degli italiani negli Stati Uniti”, il cui sottotitolo è abbastanza esplicativo.
Ma gli italiani erano “brava gente”, dirà qualche solerte avvocato d’ufficio nostrano nell’intento di coprire le similitudini tra le drammatiche vicende dei migranti di oggi e quelli di ieri.
Beh, c’erano brave persone ma anche malfattori. Come i mafiosi italiani delle due famiglie Matranga e Provenzano, che si contendevano il monopolio del traffico della frutta nella New Orleans di fine Ottocento. Quel conflitto portò all’uccisione del capo della polizia di New Orleans – sembra tra l’altro che fosse sul libro paga di una delle due cosche – e al linciaggio di 11 italiani, incriminati dell’omicidio ma poi assolti dopo un processo “addomesticato”.
L’occidente, si tratti di Stati Uniti o Europa, non può rispondere al flusso di migranti che bussano alle sue porte semplicemente alzando muri: sarebbe come rinnegare le sue responsabilità storiche riguardo le condizioni misere che si possono osservare in molti Paesi dell’America Latina, dell’Africa o dell’Asia.
E lo spauracchio del terrorismo non può cancellare la necessità di trovare risposte politiche a un fenomeno, quello migratorio, che in larga parte è frutto di secoli di sfruttamento, da parte dei paesi occidentali, di quello che un tempo chiamavamo Terzo mondo.