Egitto. Gli Usa riducono gli aiuti militari

di Giuseppe Gagliano

Gli Stati Uniti hanno annunciato una riduzione senza precedenti degli aiuti militari all’Egitto, una mossa che segna una potenziale svolta nelle relazioni tra Washington e uno dei suoi più longevi alleati nel Medio Oriente. La decisione, resa pubblica oggi, potrebbe essere il primo passo verso una revisione più ampia della cooperazione bilaterale, in un contesto di crescenti tensioni regionali e di ridefinizione delle priorità strategiche dell’amministrazione Trump, tornata al potere da gennaio 2025. Con Abdel Fattah al-Sisi al comando dell’Egitto dal 2013, questa scelta americana solleva interrogativi sul futuro dell’asse Cairo-Washington e sul ruolo del paese nordafricano nella scacchiera geopolitica.
Da decenni l’Egitto riceve circa 1,3 miliardi di dollari annui in aiuti militari dagli Stati Uniti, un flusso di finanziamenti iniziato con gli Accordi di Camp David del 1979, che garantirono la pace con Israele e trasformarono il Cairo in un pilastro della strategia americana nella regione. Questi fondi, destinati principalmente all’acquisto di armamenti statunitensi, hanno rafforzato l’esercito egiziano, ma anche vincolato il paese a una dipendenza strutturale da Washington. Tuttavia, negli ultimi anni, il rapporto si è incrinato: le critiche sulla repressione interna di al-Sisi, con decine di migliaia di prigionieri politici e una libertà di stampa soffocata, hanno spinto il Congresso e alcune frange dell’establishment americano a riconsiderare il sostegno incondizionato.
La decisione di ridurre gli aiuti arriva dopo mesi di segnali contrastanti. Nel gennaio 2025 l’amministrazione Biden aveva già deviato 95 milioni di dollari originariamente destinati all’Egitto verso il Libano, citando preoccupazioni sui diritti umani e il ruolo del Cairo nella gestione della crisi di Gaza. Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, la politica estera americana sembra ora orientarsi verso un approccio più transazionale, meno vincolato da considerazioni umanitarie e più attento a risultati immediati. La riduzione degli aiuti militari potrebbe essere un messaggio diretto ad al-Sisi: o l’Egitto si allinea maggiormente alle richieste di Washington – come una posizione più decisa contro Hamas o un’apertura a nuovi negoziati su Gaza – oppure rischia di perdere ulteriori privilegi.
Per Abdel Fattah al-Sisi, questa mossa rappresenta una sfida significativa. L’esercito egiziano, spina dorsale del suo potere, dipende dai finanziamenti americani per mantenere la propria superiorità regionale e contrastare minacce interne ed esterne, come i gruppi jihadisti nel Sinai o le tensioni al confine con la Libia. Una riduzione degli aiuti potrebbe costringerlo a diversificare le fonti di approvvigionamento militare, guardando a partner come Russia, Cina o Francia, con cui il Cairo ha già stretto accordi negli ultimi anni (ad esempio, l’acquisto di jet Rafale e sottomarini tedeschi). Tuttavia, questa transizione richiede tempo e risorse, in un momento in cui l’economia egiziana è già sotto pressione per l’inflazione e il debito estero.
Sul piano interno, al-Sisi potrebbe sfruttare la decisione americana per alimentare una narrazione nazionalista, presentandosi come leader di un Egitto sovrano che non si piega alle pressioni straniere. Eppure, qualsiasi segnale di debolezza economica o militare potrebbe rinvigorire l’opposizione, già repressa ma latente, e destabilizzare il suo regime. La recente pressione della Lega Araba, sostenuta dal Cairo, per lo smantellamento delle capacità militari di Hamas a Gaza, potrebbe essere un tentativo di al-Sisi di dimostrare la propria utilità strategica agli Stati Uniti e mitigare i tagli.
Da parte di Washington la riduzione degli aiuti riflette un riorientamento delle priorità sotto Trump. Con la chiusura dell’USAID a febbraio 2025 e un focus su tagli ai costi della diplomazia globale, l’amministrazione sembra intenzionata a concentrare le risorse su alleati percepiti come più “gestibili” o direttamente allineati ai suoi obiettivi, come Israele o, in misura minore, il Libano, dove i fondi militari sono stati recentemente aumentati per contrastare Hezbollah. L’Egitto, pur rimanendo cruciale per la stabilità regionale e il controllo del Canale di Suez, potrebbe essere visto come meno indispensabile in un’ottica di breve termine, soprattutto se non accetta di giocare un ruolo più attivo nei piani americani per Gaza o contro l’influenza iraniana.
Inoltre, la mossa potrebbe essere un segnale ad altri paesi del Nord Africa e del Medio Oriente: il sostegno statunitense non è più garantito, ma condizionato a risultati tangibili. Questo approccio pragmatico, tipico di Trump, rischia però di alienare alleati storici, spingendoli verso potenze rivali come Cina e Russia, che già stanno ampliando la loro presenza in Africa.
La riduzione degli aiuti militari all’Egitto non segna ancora la fine della partnership tra Washington e Il Cairo, ma apre una fase di incertezza. Per al-Sisi, è un test della sua capacità di bilanciare sovranità nazionale e dipendenza strategica. Per gli Stati Uniti, è un banco di prova della loro influenza in una regione sempre più contesa. Se questa decisione prelude a una revisione più ampia della cooperazione, come suggerito da alcune fonti diplomatiche, il Nord Africa potrebbe diventare il prossimo teatro di una ridefinizione degli equilibri globali, con l’Egitto al centro di un gioco politico ad alto rischio.
Dal punto di vista politico la riduzione degli aiuti militari all’Egitto può essere letta come una combinazione di pragmatismo trumpiano e reazione alle dinamiche interne ed esterne. Trump, tornato al potere, sembra voler rompere con la politica di Biden, che bilanciava (anche se con contraddizioni) il sostegno all’Egitto con pressioni sui diritti umani. La sua amministrazione privilegia una logica “America First”, riducendo impegni finanziari percepiti come poco redditizi e premiando chi si allinea senza riserve ai suoi obiettivi, come il contenimento dell’Iran o la stabilizzazione di Gaza sotto termini favorevoli a Israele.
Per l’Egitto, il taglio è un duro colpo simbolico e pratico. Al-Sisi, che ha costruito il suo regime sulla forza militare e sull’immagine di stabilità, si trova a dover ricalibrare le alleanze senza perdere il controllo interno. La sua pressione sulla Lega Araba per indebolire Hamas potrebbe essere un tentativo di rientrare nelle grazie di Washington, ma il rischio è che un Egitto più autonomo cerchi altrove, Mosca, Pechino o persino Ankara, il supporto che gli Stati Uniti non garantiscono più incondizionatamente. In un Medio Oriente già instabile, questa decisione potrebbe accelerare una frammentazione delle alleanze tradizionali, con conseguenze imprevedibili per la sicurezza regionale.