Eritrea: il presidente – dittatore Isaias Afewerki sempre più in crisi

di Enrico Oliari

L’Eritrea è uno dei pochi paesi di ispirazione pseudo-socialista che ancora resistono nello scacchiere internazionale, benché il paese si collochi per reddito pro capite, circa 600 euro, al 175esimo posto e per Pil, poco meno di 3.000 milioni di euro, al 156esimo posto.
Presidente del paese africano è il 65enne Isaias Afewerki, espressione di quel  Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia che prese il potere nel 1993, anno in cui, dopo sanguinose lotte ed un referendum quasi assoluto, l’Eritrea acquisì l’indipendenza staccandosi definitivamente dall’Etiopia alla quale era stata annessa nel 1962 su interesse degli Stati Uniti.
Le tensioni tra i due paesi ripresero nel 1998 per motivi economici e di confini e terminarono nel 2000 con la pace di Algeri e circa 70.000 morti, anche se permangono continue scaramucce dovute ai disaccordi sulla demarcazione della linea di confine e, problema che interessa entrambe le parti, la presenza di ordigni inesplosi e mine antiuomo e anticarro.
Il confine fra i due paesi rimane ancora oggi de facto indefinito, dal momento che vi sono continui sconfinamenti ed anche nella zona “cuscinetto”, di ben 25 chilometri, permangono sia truppe etiopiche che eritree.
Afewerki, che dal 1966 frequentò prima il Fronte di liberazione eritreo (venne istruito ed addestrato nella Cina di Mao e della Rivoluzione Culturale) e poi il Fronte popolare di liberazione dell’Eritrea (EPLF), ha retto e regge tutt’oggi le sorti dell’ex colonia italiana attraverso un sistema politico pressoché totalitario, dal momento che è riconosciuta la legittimazione di un unico partito e viene disattesa la Costituzione del 1997 che prevede la nascita di un sistema multi-partitico. Risulta così essere di contorno il ruolo dell’Assemblea Nazionale che conta 150 deputati.
La situazione interna è quantomeno inquietante e da più parti si levano nei confronti di Isayas Afwerki accuse di dispotismo e persino di incostituzionalità.
Qualche anno fa era stato persino allontanato dal paese africano l’ambasciatore italiano Antonio Bandini, accusato di sostenere gli oppositori al regime del presidente, mentre in realtà il diplomatico si era semplicemente espresso contro la lesione dei diritti civili in Eritrea. Pressappoco nello stesso periodo destò scalpore l’arresto di una dozzina di politici di spicco e di personaggi della cultura, accusanti anch’essi di opporsi alla politica del regime.

“I diritti civili vengono quotidianamente calpestati” – riferisce ad “NotizieGeopolitiche” l’immigrata in Italia Sefen Habte, impegnata nella causa per i diritti civili del popolo eritreo, – cosa che succede in tutto il territorio. Gli oppositori al regime del presidente vengono imprigionati e torturati. Di diversi esponenti politici e persino di ministri non si hanno più notizie. Qualcuno dice che si trovino in prigioni del Bassopiano, dove le temperature sono a dir poco torride”.

– Che tipo di controllo esercita il governo sulla popolazione?
“Il punto è proprio questo: lo stesso presidente ha dato vita ad un regime di terrore con tanto di spie fra la popolazione, come avveniva nella Romania di Ceauseascu. Non ti puoi fidare di nessuno, neppure per le piccole cose; a questo specifico ruolo sono state destinate le cosiddette “donne patriote”, ovvero militanti filo-governative che si distinsero nella lotta per l’indipendenza dall’Etiopia e che oggi sono infiltrate fra la gente comune”.

– Al di là della mancanza di un sistema multipartitico e della conseguente oppressione esercitata nei confronti degli oppositori, in quale modo vengono calpestati i diritti civili?
“Vi sono giovani, maschi e femmine, che vengono presi nelle case o sulle strade e costretti a svolgere il servizio militare, così, da un momento all’altro. I maschi specialmente vengono arruolati in modo coatto per anni, mentre le femmine vengono congedate nel momento in cui si sposano o partoriscono. Addirittura il governo interviene nelle scuole affinché non pochi studenti vengano bocciati e quindi costretti alla leva obbligatoria, cosa che vale persino per i novizi della Chiesa e fatto che ha suscitato non poche proteste da parte dei sacerdoti e dei missionari. Le giovani reclute delle zone rurali vengono educate ad una pessima percezione dei giovani studenti delle città, visti come dei viziosi, dei nullafacenti solo per i fatto non vengono arruolati. Questo corrisponde ad un piano preciso del governo che tende a tenere alta la tensione fra la popolazione al fine di averne un più attento controllo. La partenza dei giovani per anni ed anni di leva si traduce nella mancanza di sostegno per le famiglie, anche se va considerato che la pace con l’Etiopia è assai labile e che comunque non sono pochi gli scontri fra pattuglie di entrambi i paesi.
Vi è poi la questione legata agli aiuti alimentari provenienti, ad esempio, dalle Nazioni Unite: il governo non li distribuisce alla popolazione, ma li vende per incamerare denaro, cosa che riduce sul lastrico non poche famiglie. I medicinali sono praticamente introvabili e quei pochi che ci sono hanno prezzi alti. Non è neppure possibile uscire tranquillamente dal paese e persino chi ha la doppia cittadinanza perché, ad esempio, discendente da italiani, incontra non poche difficoltà: a chi sceglie questa strada lo stato chiede denaro arretrato a partire dai diciotto fino ai quarant’anni di età quale tassa di soggiorno, come se si trattasse di un turista.
Le infrastrutture sono assai carenti, le strade, per lo più risalenti all’epoca coloniale, sono ristrutturate dai militari che quindi rappresentano una forza lavoro pressoché gratuita, mentre non esiste un vero e proprio trasporto ferroviario (nel 2004 l’Eritrea aveva a disposizione sette locomotive a vapore di epoca fascista, una Fiat 27 D diesel, la “Littorina”, due camion adattati a rotaia ed una ventina di carri, ndr)”.

– Immagino che in una situazione del genere fiorisca il mercato nero…
“Chi può si fa aiutare da parenti emigrati all’estero, ma più che il mercato nero in Eritrea vi è la compravendita illegale di denaro. Si tratta di un fenomeno diffuso, anche se contrastato e punito assai duramente (1 nakfa = 0.05 euro, ndr). Se un turista entra in Eritrea con una somma di denaro, deve dimostrare di aver cambiato il denaro in modo regolare, altrimenti rischia l’arresto. Il commercio è ai minimi termini, dal momento che mancano i prodotti da vendere o acquistare, che l’industria è in profonda crisi e che gli stessi commercianti non possono uscire dal paese”.

Come viene visto il presidente Afewerki?
“Oggi su di lui vi sono molti sospetti di ogni genere. A lungo andare lo stato d’oppressione, il clima di terrore e la mancanza del rispetto dei diritti democratici stanno rappresentando un cerchio che man mano gli si stringe intorno. E’ risaputo che si sia preparato una via di fuga in caso di destituzione e c’è chi dice che abbia depositi di denaro in Australia”.

– In un clima del genere è naturale pensare che non pochi tentino di lasciare il paese…
“Chi discende dai coloni cerca di sfruttare la legge che agevola il rimpatrio dei discendenti di italiani. Molti invece attraversano il confine con il Sudan e da lì si dirigono in Libia, dove però incorrono in una serie di problemi. Per prima cosa cercano un lavoro al fine di pagare il trasporto su traghetti che salpano per l’Italia, ma spesso vengono arrestati e rimpatriati in modo forzato in Eritrea, dove vengono imprigionati.
Il 23 dicembre scorso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, su sollecitazione dell’Unione africana e dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo, emanava la Risoluzione 1907 con la quale veniva previsto essenzialmente un embargo sulla vendita di armi e di equipaggiamenti all’Eritrea, oltre che il congelamento dei fondi e degli interessi economici tenuti all’estero. La decisione veniva votata pressoché all’unanimità, fatta esclusione della Libia di Gheddafi (che si era espressa contro) e dell’amica di sempre, la Cina (la quale si era astenuta).
Il governo di Asmara era accusato in particolare dall’ambasciatore sudafricano presso le Nazioni Unite, Dumisani Kumalo, di sostenere tramite la vendita di armi gruppi vicini ai fondamentalisti islamici in Somalia e di mantenere episodi di conflitto con l’Etiopia e Gibuti. Afewerki aveva annunciato una protesta globale degli eritrei nei confronti della decisione dell’ONU, ma l’unica cosa che era riuscito ad ottenere era stata una reazione diametralmente opposta, come nel caso del Gruppo dei rifugiati eritrei in Italia, i quali nel febbraio scorso avevano indetto una manifestazione a Milano per chiedere l’applicazione di più sanzioni affinché venga rispettata la legalità e siano garantiti i Diritti Umani.
Il  nostro popolo eritreo – si leggeva in una nota – ha bisogno del vostro sostegno morale e umanitario perché da anni soffre la tirannia e le torture del regime.
Noi eritrei siamo altresì molto addolorati per la situazione dei nostri fratelli imprigionati nella  carceri di Gheddafi: chiediamo che vengano sospesi i rimpatri forzati  già in atto in Libia e impediti anche i quotidiani rapimenti di profughi eritrei in Sudan da parte dei servizi segreti governativi.
Vogliamo che la Comunità Internazionale sia sensibilizzata su questi argomenti, affinché possa portare le nostre istanze nelle competenti sedi dell’ONU. Considerate che la nostra voce è la voce della vittime delle torture e delle persecuzioni. 
La manifestazione del 19 febbraio 2010 vuole richiamare l’attenzione di tutta la comunità internazionale sulla situazione interna del nostro paese e sulle violazioni dei diritti Umani e Civili dei nostri concittadini in Eritrea. Abusi perpetrati e motivati dal governo eritreo  con l’irrisolto conflitto con l’Etiopia, un alibi per non avviare il processo di democratizzazione nel paese.
Manifestiamo per chiedere che venga rispettata la risoluzione dell’OUA dell’Aprile 2002, che ha stabilito il confine dei due paesi belligeranti”.