Etiopia. Il paese da cui nessuno può prescindere

di Valentino De Bernardis –

desalegn-hailemariamUn anno. E’ passato esattamente un anno da quando i primi scontri e manifestazioni di piazza nella regione sud-ovest del paese hanno portato il regime di Addis Abeba al centro del dibattito internazionale. Un fenomeno in crescita, uscito quasi subito dalle università per abbracciare una fascia più ampia di popolazione, che ha inevitabilmente condotto a ripercussioni negative sulla percezione dell’Etiopia nell’opinione pubblica mondiale, e successivamente economica. A testimoniare questa lunga connessione sono giunti a metà novembre i primi dati del ministero del Turismo, con un crollo delle entrate in uno dei settori più importanti per l’economia nazionale, pari a circa 7,4 milioni di dollari nel solo primo trimestre dell’anno (tanto da costringere l’esecutivo a rivedere al ribasso le stime per il 2016, passando da 3,4 miliardi a 3 miliardi di dollari, ma suscettibili di ulteriore modifiche).
Oltre alla freddezza dei numeri, e alle dovute considerazioni su come le proteste possano aver influenzato l’economia nazionale, cosa è veramente cambiato ad Addis Abeba? Si tratta di numeri che saranno riconfermati su base annua, oppure no? Il proseguimento delle proteste di strade nelle regioni dell’Oromia e dell’Amhara possono realmente minare la stabilità del paese nel medio-lungo periodo, e mettere a rischio la tenuta del Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope (EPRDF) alla guida del paese? Guardando alla storia del Paese, la risposta potrebbe essere tendenzialmente negativa. Per sua conformazione morfologica e statuale, sin dai tempi dei grandi imperatori, le regioni che maggiormente si differenziavano dal potere centrale di Addis Abeba (sia etnicamente che economicamente che su base religiosa) hanno ricercato una sempre maggiore indipendenza, più o meno estesa, quasi mai andato a buon fine (ad eccezione dell’Eritrea, ma li entrarono in gioco altri componenti storico-politiche).
Guardando al presente etiopico, la storia sembra ripetersi. Il primo ministro Hailemariam Desalegn in carica dal 2012 e riconfermato dopo le elezioni del 2015, ha deciso dia attuare una politica del bastone e della carota con le opposizione, senza però voler mettere mai in discussione l’egemonia dell’EPRDF.
La parte del bastone è rappresentata dalla dichiarazione, lo scorso 9 ottobre, dello stato di emergenza, per un periodo di sei mesi prolungabile a discrezione dell’esecutivo. Una decisione forte che pone l’accento sull’azione di prevenzione (con la conseguente limitazione delle libertà di espressione e movimento e assembramento) e repressione (gli ultimi dati parlano di circa 11 mila arresti dalla proclamazione dello stato di emergenza ad oggi). Una mossa estrema che ha voluto rappresentare un messaggio chiaro non solamente alla propria opposizione interna, ma anche agli investitori stranieri, per assicurarli sulla sicurezza e la stabilità etiope dopo che i manifestanti avevano rivolto attacchi sempre più violenti ai centri di produzione turchi presenti nell’Oromia.
etiopia-etnie-fuoriLa carota invece è da ricercare nel rimpasto di governo avviato il primo novembre, con il cambio di ventuno ministri su trenta. Al netto dei nuovi nomi alla testa dei diversi dicasteri, e del percorso formativo di ognuno di loro, il cambio più rappresentativo è stato quello del ministero degli esteri, un dicastero affidato nel corso degli ultimi venticinque anni ad un esponente del Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè (TPFL) ultimo tra questi Tedros Adhanom, è stato assegnato ad un esponente Organizzazione Democratica delle Persone Oromo (OPDO), l’ex ministro dei trasporti Workneh Gebeyehu. Un cambiamento forse di facciata come denunciano i detrattori di Desalegn (gli stessi che ritengono l’OPDO un partito di traditori degli interessi degli Oromo), ma pur sempre un importante gesto simbolico che in pochi avrebbero previsto solo un mese fa.
La ricerca di una maggiore apertura politica, in chiave democratica-partecipativa, più ancora della crescita economica, è quindi oggi la sfida più difficile che l’Etiopia sta affrontando. Compito dell’Occidente è quello di aiutare le forze politiche in campo a trovare una sintesi condivisa ed evitare che le stesse possano arrivare ad un perpetuo stato di latente instabilità politica in un paese chiave per l’area e per tutta l’Africa Sub Sahariana.
Una importanza di cui, come dicevamo all’inizio, Addis Abeba è consapevole, non a caso a fine ottobre l’Etiopia ha dato il via al graduale ritiro di una parte del proprio contingente militare dalla Somalia dove sotto l’egida dell’Amisom è impegnato alla lotta contro il gruppo terrorista di stampo islamista al-Shabab. La minaccia di un completo ritiro delle truppe etiopi dalla Somalia è un rischio che nessuno può permettersi, e se per evitarlo c’è bisogno di chiudere un occhio sul non rispetto dei diritti politici in Oromia e Amhara, c’è da credere che molti gabinetti saranno disposti a farlo, perché l’Etiopia è un paese da cui nessuno può prescindere.

Nella prima foto: il premier etiope Hailemariam Desalegn.

@debernardisv
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