Filippine. Braccio di ferro con la Cina per Sandy Cay… un banco di sabbia

di Giuseppe Gagliano

Nel cuore dell’Indo-Pacifico, dove le rivalità geopolitiche si intrecciano con rotte commerciali strategiche, la Cina e le Filippine hanno nuovamente incrociato le loro ambizioni. A Sandy Cay, un piccolo gruppo di banchi di sabbia disabitati vicino alle isole Spratly, entrambi i Paesi hanno issato le proprie bandiere nazionali, rivendicando apertamente la sovranità. Un gesto simbolico, ma carico di implicazioni, avvenuto mentre si svolgono le più ampie esercitazioni militari congiunte USA-Filippine degli ultimi anni.
La tensione è salita ulteriormente dopo che il segretario alla Difesa statunitense, Pete Hegseth, ha promesso di rafforzare l’alleanza con Manila per “ristabilire la deterrenza” contro quella che Washington definisce “l’aggressione cinese” nella regione.
Il Mar Cinese Meridionale, rivendicato da più governi ovvero Cina, Filippine, Vietnam, Malesia e Brunei, è uno dei nodi più intricati della geopolitica globale. Pechino, sfidando una sentenza internazionale che ne contestava le pretese, ha progressivamente militarizzato barriere coralline e atolli, costruendo piste d’atterraggio e porti militari lontano dalla propria costa.
Sandy Cay, situato vicino all’isola di Thitu (Pag-asa per i filippini), sede di una base militare filippina, è diventato così l’ultimo teatro di una lunga contesa.
Secondo la Guardia Costiera cinese, sei membri del personale filippino sarebbero “sbarcati illegalmente” su Tiexian Reef (nome cinese di Sandy Cay), ignorando gli “avvertimenti” di Pechino. Gli agenti cinesi avrebbero poi “verificato e gestito” la situazione “nel rispetto della legge”, intimando a Manila di cessare ogni “violazione della sovranità”.
Da parte loro le Filippine rivendicano il pieno diritto di presidiare il banco sabbioso, considerandolo parte integrante del proprio territorio nazionale.
Il tutto avviene mentre gli Stati Uniti, sotto la presidenza Trump, oscillano tra una retorica pragmatica e il pressing di settori anti-cinesi interni all’amministrazione, incarnati da figure come il segretario di Stato Marco Rubio e dallo stesso Hegseth.
Le esercitazioni “Balikatan” (letteralmente “spalla a spalla”) del 2025 segnano un salto di qualità nella cooperazione militare tra Washington e Manila.
Quest’anno oltre 14mila soldati partecipano a manovre congiunte che per la prima volta coinvolgono pienamente anche il Giappone, segnale evidente di una rete di alleanze regionali più fitta e orientata al contenimento della Cina.
Gli Stati Uniti hanno inoltre schierato un sistema lanciamissili antinave sulla punta settentrionale delle Filippine, a ridosso dello stretto di Taiwan, rafforzando ulteriormente la postura difensiva nella regione.
Il caso di Sandy Cay non è isolato. È piuttosto il sintomo di un equilibrio instabile dove ogni atollo o barriera corallina può diventare il detonatore di una crisi più ampia.
Per gli Stati Uniti, già impegnati su più fronti, la partita indo-pacifica resta centrale. Ma il rischio è che, tra bandiere issate e rivendicazioni incrociate, si perda di vista la gestione diplomatica delle tensioni a favore di un’escalation a bassa intensità ma persistente.
In questo contesto Sandy Cay diventa molto più di un banco di sabbia: si trasforma nel simbolo concreto della nuova geopolitica delle micro-sovranità.