di Giuseppe Gagliano –
La storia della lotta contro le guerriglie comuniste nelle Filippine rappresenta uno dei casi più complessi e longevi di conflitto politico-militare nel sud-est asiatico. Sin dagli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, il governo filippino si è trovato a fronteggiare insurrezioni radicate nelle disuguaglianze sociali e nelle tensioni politiche, che hanno avuto profonde implicazioni geopolitiche.
Negli anni ’40 il movimento degli Hukbalahap (Huks), nato come forza di resistenza contro l’occupazione giapponese, si trasformò in una guerriglia comunista contro il governo centrale filippino. Gli Huks trovarono sostegno tra i contadini poveri, sfruttando il malcontento sociale generato dalla concentrazione delle terre nelle mani di poche famiglie.
Tuttavia il governo filippino, supportato dagli Stati Uniti, rispose con un approccio repressivo. Le forze di polizia e la Philippine Constabulary, inizialmente incaricate di contrastare gli insorti, si rivelarono inefficaci a causa di corruzione e impreparazione. L’esercito, poco numeroso, fu quindi incaricato di combattere gli Huks, ma anche qui emersero limiti legati all’inefficienza operativa e all’approccio convenzionale.
La situazione iniziò a cambiare con l’arrivo di Edward Lansdale, agente della CIA, e Max Eyssai, figura politica e militare filippina. La loro collaborazione introdusse una nuova strategia, incentrata sulla contro-guerriglia politica. Tra le misure più significative vi furono la redistribuzione delle terre ai ribelli disarmati e una maggiore attenzione alla comunicazione e alla propaganda. Il programma Economic Development Corps rappresentò un modello innovativo, che combinava azioni militari con interventi economici per riconquistare la fiducia delle comunità rurali.
Nonostante la sconfitta degli Huks negli anni ’50, il conflitto comunista non si concluse. Nel 1969, il Partito Comunista delle Filippine (CPP) fondò la New People’s Army (NPA), adottando un modello maoista di guerriglia diffusa. Diversamente dagli Huks, la NPA riuscì a espandersi su scala nazionale, organizzando fronti di combattimento in oltre due terzi delle province del paese.
Negli anni ’80, la NPA raggiunse il suo apice con circa 25mila combattenti, dimostrando una capacità logistica e militare superiore. La strategia della NPA includeva tattiche di guerriglia classiche, infiltrazioni nelle comunità locali e una stretta connessione con il Fronte Democratico Nazionale, un’alleanza politica che cercava di unire diversi movimenti di opposizione al governo centrale.
La lotta contro la NPA evidenziò i limiti delle operazioni militari convenzionali. Il governo filippino dovette riorganizzare le proprie forze armate, creando unità specializzate come gli Scout Rangers, piccole squadre mobili incaricate di infiltrare e destabilizzare le basi nemiche. Lansdale ed Eyssai promossero inoltre una campagna di “guerra psicologica”, utilizzando propaganda, riforme agrarie e progetti di sviluppo per ridurre il sostegno popolare alla guerriglia.
Un’azione particolarmente simbolica fu il progetto Head Corps, che offriva terre ai guerriglieri disarmati e alle loro famiglie in villaggi modello, cercando di disinnescare il richiamo comunista alla redistribuzione agraria. Questo approccio, sebbene non risolutivo, contribuì a ridurre l’influenza della NPA nelle aree rurali.
Nonostante i successi temporanei, la minaccia comunista nelle Filippine persiste. Negli anni ’90, il governo legalizzò il Partito Comunista e avviò negoziati di pace, ma il conflitto si riaccese con la presidenza di Rodrigo Duterte. Nel 2017, Duterte interruppe i colloqui di pace e dichiarò guerra alla NPA, mobilitando 67 battaglioni contro i ribelli. Attualmente, il conflitto coinvolge oltre 110 fronti di guerriglia, con una forte concentrazione sull’isola di Mindanao, dove è stata imposta la legge marziale.
La lotta contro le guerriglie comuniste nelle Filippine è un caso emblematico di conflitto asimmetrico, dove il successo militare spesso non basta a risolvere le cause profonde della ribellione. Le lezioni apprese – dall’importanza di una strategia politica integrata all’uso della propaganda e dello sviluppo economico – rimangono rilevanti per affrontare insurrezioni in altri contesti globali. Tuttavia, la persistenza della NPA dimostra che le radici politiche e sociali di questi conflitti richiedono soluzioni di lungo termine, capaci di andare oltre la mera repressione militare.