di Cesare Scotoni –
La crepuscolare uscita di scena di Joe Biden, appesantito dalle ingombranti anomalie che avevano accompagnato quella sua controversa vittoria segnata fino alla fine dallo scandalo con cui era stata costruita, è stata e resta un raro esempio di vitalità degli Stati Uniti d’America. Dove al furto della volontà popolare, compiuto all’ombra di un’emergenza pandemica assolutamente strumentale, si sono contrapposte determinazione e tenacia di chi, contro i notabili del proprio partito che avevano permesso quello scempio, ha preteso ed ottenuto una rivincita per sé e per i propri elettori su chi non ha mai fatto mistero di considerarsi intoccabile.
Lo ha fatto scegliendo come vice chi era in grado di catalizzare in modo nuovo la rabbia di troppi per farne razionalmente un mezzo utile a rivendicare e veicolare quell’energia, da tempo annichilita ed inespressa, che però è parte sostanziale di quella Costituzione Repubblicana in cui si sancisce il diritto di ciascuno al perseguire la propria felicità.
Sottolineando razionalmente come certi approcci, gratuitamente ideologici o le scelte fatte dall’alto in spregio di ciò che altri avevano voluto e costruito nel tempo, nascondessero oggettivamente una volontà totalizzante che aveva permesso di costruire già nel 2020 sia la leggenda delle interferenze russe che un sistema di censura articolato per negare quei fatti che poi portarono alla condanna di Hunter Biden o, nella gestione Cov-19, di vessare gratuitamente le masse con dei provvedimenti privi di una qualsiasi validità scientifica. La promessa ai propri elettori di raddrizzare tempestivamente la barca e la possibilità di quelli di confrontare e valutare il quadriennio iniziato nel 2017 con quello vissuto dal 6 gennaio 2021 ed i rispettivi esiti ha reso inarrestabile la cavalcata di Trump verso la vittoria ed il mancato assassinio di quel candidato ha dato risalto ad un atteggiamento “proprietario” verso le istituzioni da parte di quella amministrazione uscente e della candidata di scarso spessore che aveva espresso, minandone ulteriormente l’empatia.
Al fallito tentativo di Obama di proporre una sostanziale discontinuità, han fatto invece da riscontro persone come Liz Cheney o l’ex presidente Bush, che del conflitto di interessi in politica sono da sempre stati monumentali esempi.
Il fatto che questa volta le anomalie statistiche sul voto per posta non si siano verificate e che l’elevata allerta sull’identità dei votanti ed il loro diritto al voto abbia visto ripulire molti registri elettorali dovrebbero forse spingere alcuni attenti cronisti ad approfondire meglio gli accadimenti del 2020, ma ormai si deve guardare avanti. Non ci sarà nessuna rivoluzione. Trump ha già governato e non la fece. Fece invece gli Accordi di Abramo, spostò l’ambasciata USA a Gerusalemme, uscì dall’OMS, picchiò duro sui dazi con la Cina, sull’Unione Europea ed il suo rapporto con la NATO e con il WTO e durissimo sulla Germania ed il Nord Stream2. Parte del lavoro sporco lo fece poi l’amministrazione Biden. Certo qualche testa a livello federale potrà anche rotolare, ma con buona ragione, viste le evidenze emerse negli ultimi 18 mesi. Saranno il Partito Repubblicano e il Senato le sue principali preoccupazioni fino alla fine dell’anno prossimo e gli ambasciatori in giro per il mondo.
Londra e Kiev dovranno trovare la soluzione che non han mai voluto, poiché, come diceva il professor Henry Kissinger, nessuno in occidente è così folle da volersi ritrovare con la Russia a fianco della Cina. Ed ora lo sa anche Biden. L’Italia poi, in quanto portaerei nel Mediterraneo e supporto infrastrutturale vitale per la NATO nel quadrante sud, certamente saprà trarre vantaggio da quel chiarissimo cambio alla guida che mai ad alcuno è risultato imprevisto, tanto meno alla Ursula von der Leyen, che ben si è guardata dal portare i candidati commissari della sua Commissione all’esame del Parlamento europeo prima dell’esito arrivato stanotte.