Francia. Pavel Durov ostaggio della giustizia francese: quando la libertà digitale diventa un rischio penale

di Giuseppe Gagliano

Dietro la facciata della neutralità tecnologica e della libertà d’espressione, si consuma l’ennesimo conflitto tra Stato di diritto e cyberspazio. Pavel Durov, fondatore di Telegram e cittadino francese dal 2021, si è visto nuovamente negare il diritto di viaggiare: la giustizia francese gli ha impedito di partecipare fisicamente al Oslo Freedom Forum, prestigiosa piattaforma per i diritti umani. Un verdetto che non solo mette a nudo le contraddizioni della République in materia di libertà civili, ma solleva interrogativi profondi sul rapporto tra sicurezza nazionale, sovranità digitale e controllo delle informazioni.
La motivazione è nota: Durov è indagato in Francia per presunta complicità in attività criminali attraverso Telegram. Ma il contesto è ben più ampio. Negli stessi giorni, il tycoon russo-francese ha accusato pubblicamente il capo della DGSE, Nicolas Lerner, di aver esercitato pressioni affinché censurasse contenuti conservatori legati alla scena politica romena. Una richiesta, sostiene Durov, respinta con la stessa fermezza con cui rifiutò in passato di piegarsi a Mosca, Teheran o Minsk.
Di fronte a questa escalation, la DGSE ha rigettato le accuse, rivendicando unicamente “ripetuti richiami” all’obbligo di contrastare terrorismo e pedopornografia. Ma la coincidenza temporale tra le accuse e le restrizioni giudiziarie appare tutt’altro che neutrale. E l’opinione pubblica internazionale si divide: da un lato chi vede in Telegram una piattaforma troppo permissiva verso contenuti illeciti, dall’altro chi la difende come baluardo essenziale per l’informazione libera sotto regimi repressivi.
Il presidente della Human Rights Foundation, Thor Halvorssen, ha parlato senza mezzi termini di un “colpo alla libertà”, denunciando il paradosso di una Francia che in nome della sicurezza limita la voce di uno degli ultimi grandi sostenitori del cripto-attivismo neutrale.
Già a maggio Durov era stato bloccato mentre cercava di recarsi negli Stati Uniti. Unica eccezione recente: un viaggio approvato in primavera verso Dubai, ormai una delle sue basi operative. Costretto alla videoconferenza anche per Oslo, il fondatore di Telegram continua a pagare il prezzo di una doppia identità: imprenditore tech e simbolo involontario della battaglia globale per la privacy.
Il suo caso cristallizza perfettamente una dinamica esplosiva. Da una parte i governi, europei in testa, che chiedono maggiore trasparenza, controllo algoritmico, accesso ai contenuti cifrati. Dall’altra, le piattaforme che rivendicano la neutralità della rete come principio sacro. In mezzo, un terreno minato dove la giustizia finisce per essere usata come leva geopolitica.
Pavel Durov diventa così un personaggio scomodo. Perché sfugge alle categorie classiche: non è un dissidente in esilio, non è un imprenditore sottomesso al capitale occidentale, non è nemmeno un attore geopolitico nel senso tradizionale. Ma proprio per questo, rappresenta una minaccia per l’ordine stabilito: quello in cui ogni nodo della rete deve obbedire alle logiche nazionali o cadere nella sfera d’influenza dei poteri forti.
Il suo caso potrebbe diventare un precedente. Un simbolo per chi, nei prossimi anni, vorrà capire se l’Europa sarà la patria dei diritti digitali… o la loro tomba.