di Giuseppe Gagliano –
La condanna di Nicolas Sarkozy a cinque anni di carcere senza possibilità di sospensione, decisa dal tribunale di Parigi, è molto più di un semplice episodio giudiziario. Pesa come una sentenza morale su un’intera epoca e sulle scelte politiche che hanno segnato l’inizio del XXI secolo. L’ex presidente francese è stato riconosciuto colpevole di aver accettato finanziamenti occulti provenienti dalla Libia di Muammar Gheddafi per la sua campagna del 2007. Ma questa decisione non si limita al richiamo di una colpa personale. Ricorda soprattutto che, al cuore di questa vicenda, si cela una contraddizione insopportabile: colui che chiese denaro al “Colonnello” libico fu anche colui che, qualche anno più tardi, contribuì in maniera decisiva alla sua caduta e al collasso del suo Paese.
Nel dicembre 2007 Gheddafi venne accolto a Parigi con tutti gli onori. Sarkozy gli aprì le porte dell’Eliseo e ne incoraggiò l’integrazione nell’Unione per il Mediterraneo. L’immagine della tenda beduina piantata nei giardini dell’hôtel Marigny simboleggiava una nuova era di cooperazione. Ma dietro i sorrisi ufficiali già circolavano i sospetti: valigie di denaro, finanziamenti occulti, un legame che si sarebbe presto trasformato in condanna.
Quattro anni dopo, nel marzo 2011, la Francia cambiò bruscamente rotta. Mentre la rivolta contro Gheddafi cresceva, Parigi fu il primo Paese a ordinare ai suoi Rafale di colpire le forze lealiste. L’operazione Harmattan, concepita in tutta fretta, voleva essere la dimostrazione che la Francia poteva agire senza attendere Washington. La risoluzione 1973 delle Nazioni Unite, nata per imporre una semplice no-fly zone, fu interpretata come un lasciapassare per una guerra totale. Sarkozy si fece campione di questa lettura estrema, affiancato dal primo ministro britannico David Cameron.
Quella scelta non obbediva soltanto a ragioni umanitarie. Rispondeva a una somma di calcoli. Da un lato, Sarkozy voleva riaffermare la potenza militare francese e dimostrare che l’Europa poteva esistere sul piano strategico. Dall’altro, cercava di contrastare l’influenza italiana in Libia, dove i rapporti personali tra Berlusconi e Gheddafi, così come i contratti dell’ENI, garantivano a Roma una posizione dominante. E infine, in vista delle elezioni del 2012, il presidente sperava di rafforzare la propria immagine di uomo forte e di mettersi al riparo da eventuali ricatti sui finanziamenti elettorali.
Questa logica era alimentata anche dalla volontà di ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti. Barack Obama esitava, timoroso di ripetere i fallimenti iracheni e afghani. Berlusconi tentava una mediazione, proponendo l’esilio a Gheddafi. Ma la determinazione francese prevalse. La NATO fu costretta a inglobare l’operazione sotto il suo comando, ma era chiaro a tutti che la dinamica era stata imposta da Parigi.
Un attore spesso sottovalutato ebbe un peso decisivo: il Qatar. Alleato economico di Parigi e sostenitore convinto dei Fratelli Musulmani, Doha garantì ai ribelli libici finanziamenti, armi e truppe speciali. Questa implicazione dimostrò che la guerra in Libia non fu solo una partita tra Francia e Tripoli, ma un teatro in cui si incrociarono ambizioni regionali, rivalità tra monarchie del Golfo e calcoli occidentali.
La Francia, convinta di poter controllare il dopo-Gheddafi, rimase intrappolata in una partita molto più complessa. Quando Tripoli cadde, il Paese era già in frantumi: milizie locali senza freni, fazioni islamiste sostenute dall’esterno, ingerenze turche e russe. L’illusione di una Libia democratica lasciò presto spazio alla realtà di un non-Stato.
Tredici anni dopo, il bilancio è impietoso. La Libia è divisa tra Tripolitania e Cirenaica, spaccata tra due governi rivali e decine di milizie. Le risorse petrolifere, un tempo garanzia di stabilità, non bastano più a ricostruire un Paese in macerie. La Libia è diventata un immenso corridoio migratorio verso l’Europa e un campo di battaglia dove si confrontano, per procura, Turchia, Russia, Egitto, Emirati e Qatar.
Il caos libico ha avuto conseguenze dirette sul Sahel. Gli arsenali di Gheddafi, saccheggiati dopo la sua caduta, hanno alimentato le ribellioni tuareg e i gruppi jihadisti in Mali, Niger e Burkina Faso. La Francia è stata costretta a intervenire militarmente nella regione, prima con l’operazione Serval, poi con Barkhane. Ma queste missioni, lungi dal portare stabilità, hanno confermato che il vaso di Pandora aperto in Libia continuava a produrre effetti distruttivi.
La condanna di Sarkozy appare quasi come un’ironia del destino. L’uomo che voleva dimostrare la grandezza della Francia e il suo primato europeo si ritrova in carcere, prigioniero delle ombre di un passato che non è riuscito a cancellare. Eppure sarebbe ingiusto pensare che porti da solo la responsabilità. La NATO, l’Unione Europea, gli Stati Uniti e le monarchie del Golfo hanno avuto un ruolo in quella guerra. Sarkozy, però, ne fu il volto più visibile e il più ostinato.
Il dramma tuttavia va oltre il suo destino personale. Sono i libici che, tredici anni dopo, continuano a pagare il prezzo più alto. Sono i Paesi vicini, destabilizzati, che sopportano le conseguenze. Sono l’Europa e il Mediterraneo che subiscono ancora oggi le ripercussioni migratorie, economiche e di sicurezza di una decisione presa con leggerezza.
Il caso Sarkozy insegna una lezione dura ma necessaria. Distruggere una dittatura non significa creare una democrazia. Stravolgere il senso di una risoluzione ONU mina la credibilità del diritto internazionale. Illudersi che una guerra possa portare prestigio e influenza è un errore fatale. La Francia pensava di consolidare il proprio ruolo nel Mediterraneo; ha invece contribuito a seminarvi un disordine che le sfugge di mano.
La giustizia francese ha chiuso un dossier condannando un ex presidente. Ma non ha richiuso la ferita libica. Perché al di là del destino personale di Nicolas Sarkozy, è un’intera regione a rimanere segnata dalle conseguenze delle sue scelte. E il paradosso resta intatto: un uomo pagherà con la propria libertà, ma la Libia continua a pagare con la propria vita quotidiana il prezzo di una guerra che avrebbe potuto essere evitata.












