di Marcello Beraldi –
Ancora una volta, sotto la copertura di una parola ingannevole “pace” si cela l’ennesimo tentativo di legittimare l’occupazione, insabbiare le responsabilità di Israele, e soffocare le rivendicazioni di un popolo che da oltre settant’anni lotta per la propria autodeterminazione. Il nuovo “piano di pace” proposto da Donald Trump, con il pieno appoggio del governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu, non è altro che una tregua a senso unico, costruita sulle macerie di Gaza e sulle condizioni inaccettabili imposte ai palestinesi.
Dietro ai sorrisi diplomatici, ai tweet trionfanti e alle promesse di ricostruzione, si cela la prosecuzione con altri mezzi della guerra coloniale di Israele contro la Palestina. Una guerra che ha già ucciso oltre 60mila civili nella sola Gaza, ridotto in cenere interi quartieri, lasciato 2 milioni di persone senza acqua, elettricità, ospedali, né speranza. Un popolo sotto assedio, strangolato da un blocco che dura da 17 anni, schiacciato da una potenza militare che agisce nell’impunità garantita dalle cancellerie occidentali. Il piano statunitense chiede a Hamas la resa totale: disarmo, consegna degli ostaggi, rinuncia a qualsiasi ruolo politico nella futura governance di Gaza. In cambio? Una promessa vaga di cessate il fuoco, la liberazione di alcuni prigionieri palestinesi e la creazione di una struttura “transitoria” gestita da attori terzi, forse l’Autorità Nazionale Palestinese, forse una forza internazionale. Ma cosa si chiede a Israele? Nulla. Nessuna condanna per i crimini di guerra, nessuna garanzia sul ritiro delle truppe, nessuna limitazione agli insediamenti illegali in Cisgiordania.
È l’ennesima normalizzazione dell’ingiustizia. La demilitarizzazione di Gaza, presentata come condizione per la pace, non è altro che un disarmo unilaterale del popolo palestinese, mentre Israele mantiene intatta la sua macchina bellica, finanziata e armata da Washington. Non è pace: è un diktat sotto minaccia. Dietro l’ossessione per “sradicare Hamas” si cela un obiettivo più ampio: cancellare ogni forma di resistenza. Hamas, per Israele e per l’Occidente, non è un nemico militare, ma un ostacolo politico. È la forza che — al di là delle sue scelte discutibili, dei suoi errori e degli attacchi armati — ha saputo incarnare, in questi anni, l’unica alternativa possibile al collasso dell’Autorità Palestinese, divenuta ormai un’appendice dell’occupazione. Il piano Trump non offre ai palestinesi alcuna prospettiva reale di liberazione. Non parla del diritto al ritorno dei profughi. Non menziona Gerusalemme Est, annessa illegalmente. Non fa cenno agli oltre 700mila coloni israeliani che ogni giorno mangiano terra e diritti in Cisgiordania. Non riconosce lo status di Gaza come territorio occupato. In altre parole: nega tutto ciò che sta alla radice del conflitto. Anzi, rafforza il paradigma coloniale: i palestinesi possono ricevere aiuti umanitari solo se si comportano bene. Se smettono di resistere. Se si fanno amministrare da tecnocrati selezionati da fuori, magari sotto il controllo degli Emirati o dell’Egitto. Una “ricostruzione” che non ha nulla di sovrano: è un’elemosina, condizionata alla sottomissione. Israele, nel frattempo, continua a giocare su più tavoli. Accetta la tregua per ridurre le pressioni internazionali, liberare parte degli ostaggi e rilanciare la propria immagine. Ma sul terreno, nulla cambia: le truppe restano a Gaza, i raid continuano a Jenin e Nablus, gli arresti arbitrari si moltiplicano, le colonie si espandono. E i coloni, armati e protetti, agiscono impuniti contro i contadini palestinesi, bruciano case, aggrediscono villaggi, con la complicità dell’esercito. L’apartheid non è una metafora: è la realtà quotidiana in Cisgiordania. Un regime di passaporti, muri, checkpoint, leggi differenziate per ebrei e arabi. Un sistema che Amnesty, Human Rights Watch e perfino alcuni ex capi dell’intelligence israeliana definiscono senza ambiguità: apartheid. Eppure, chi denuncia tutto questo viene bollato come estremista. Antisemita. Complice del terrorismo. Mentre chi massacra civili, rade al suolo ospedali e uccide giornalisti (Shireen Abu Akleh, ricordiamola), riceve missili americani e silenzio europeo. Sì, il cessate il fuoco è necessario.
La gente a Gaza ha bisogno di pane, acqua, cure. Ma questa tregua, come quelle che l’hanno preceduta, non può durare, se non si affrontano le cause strutturali del conflitto. La pace non si costruisce con le conferenze a porte chiuse né con i comunicati della Casa Bianca. Si costruisce riconoscendo la verità: che c’è un popolo occupato e uno occupante. Che esiste un diritto internazionale costantemente calpestato. Che senza giustizia, la pace è solo una pausa tra due bombardamenti. Trump, come Biden, come l’Europa, non cerca una soluzione, ma una gestione. Una “pace” che salvi Israele dall’isolamento, garantisca sicurezza agli alleati arabi, e tenga sotto controllo la rabbia di milioni di palestinesi privati di tutto, tranne della dignità. Ma quella dignità non si spegne. Gaza non è solo macerie: è resistenza, memoria, identità. E finché quella identità sarà negata, ogni piano di pace sarà un castello di carta costruito sopra una fossa comune.
















