
di Giuseppe Gagliano –
Mentre la Striscia di Gaza continua a soffocare sotto un assedio che ha assunto i contorni di una carestia annunciata, Rabat prepara la sua mossa. Il National Action Group for Palestine, storica coalizione trasversale della società civile marocchina, ha ufficializzato la volontà di prendere parte alla “Marcia globale verso Gaza”, un’iniziativa internazionale che punta a rompere, almeno simbolicamente, il blocco israeliano. Ma come sempre in Medio Oriente, l’intenzione politica si infrange contro la realtà geopolitica: la partecipazione del Marocco è appesa a un “sì” del Cairo.
Il percorso è già tracciato: una delegazione marocchina dovrebbe partire il 12 giugno, atterrare al Cairo, attraversare Al-Arish e infine raggiungere il valico di Rafah a piedi. Ma l’accesso a quell’area – zona militare controllata e monitorata dalle autorità egiziane – richiede un’autorizzazione straordinaria. Per ora, nonostante pressioni diplomatiche e appelli pubblici, tutto tace. Le autorità egiziane hanno promesso una risposta, ma non l’hanno ancora data. E il silenzio del Cairo pesa quanto una condanna.
Non è la prima volta che i governi arabi si trovano a dover scegliere tra la solidarietà dichiarata e le alleanze strategiche. L’Egitto, custode unico del valico di Rafah, è da anni l’interlocutore privilegiato di Israele e Washington nel contenimento di Gaza, oltre che partner nella repressione dei Fratelli Musulmani e delle correnti islamiste regionali. Appoggiare una marcia di attivisti che si dichiarano pacifici ma che sfidano frontalmente il blocco significa rompere l’equilibrio diplomatico fragile ma redditizio che lega il Cairo a Tel Aviv e a Riyad.
Il Marocco dal canto suo gioca una partita difficile. È uno dei pochi paesi arabi ad aver normalizzato formalmente le relazioni con Israele nel quadro degli Accordi di Abramo, ma è anche uno dei principali laboratori di consenso pro-palestinese interno. L’iniziativa della Marcia, che ha già ricevuto il sostegno della sinistra, degli islamisti moderati e di varie personalità indipendenti, è espressione di una pressione popolare crescente, che la monarchia non può ignorare del tutto. Rabat vuole esserci, ma non può permettersi di esporsi in modo unilaterale.
Il gesto ha una natura simbolica: a differenza di altri convogli, come la Freedom Flotilla o il Convoglio Somoud dalla Tunisia, la delegazione marocchina non intende entrare fisicamente a Gaza, né consegnare aiuti. Il suo obiettivo è manifestare al confine, insieme ad attivisti di oltre 30 Paesi. È il gesto politico a contare, non la logistica. Ma proprio per questo, bloccarlo significherebbe impedire alla protesta internazionale di raggiungere anche solo la soglia della coscienza mediatica.
Dietro le quinte l’ONU lancia l’allarme: Gaza è “il posto più affamato del mondo”. La popolazione, oltre 2 milioni di persone, è allo stremo, tra bombardamenti, fame e sfollamento forzato. Israele, sotto pressione crescente, ha concesso l’ingresso a quantità limitate di aiuti e ha ripristinato in parte la cooperazione con le Nazioni Unite. Ma contemporaneamente, ha spinto per affidare la distribuzione alla controversa Gaza Humanitarian Foundation, entità privata sponsorizzata dagli Stati Uniti e priva di credibilità reale sul terreno. Il risultato è che gli aiuti restano simbolici, insufficienti, politicizzati.
In questo scenario la Marcia diventa una cartina di tornasole: per il Marocco, che vuole mostrare vicinanza alla causa palestinese senza rompere con Tel Aviv; per l’Egitto, che deve scegliere tra la chiusura strategica e la tolleranza diplomatica; per l’intero mondo arabo, che ancora una volta si trova a proclamare solidarietà ma a praticare l’inerzia.
Se il Cairo chiuderà le porte, lo farà in nome della sicurezza. Ma la verità è che ogni passo negato alla solidarietà civile è un passo concesso alla logica del blocco e del castigo collettivo. In tempi in cui Gaza muore di fame e di silenzio, anche una marcia che si ferma al confine può diventare un atto di accusa che attraversa i muri dell’indifferenza.