di Giuseppe Gagliano –
La Striscia è un grido strozzato, un lembo di terra dove la fame è diventata arma e la sopravvivenza un atto di resistenza. In questo scenario di disperazione, gli Stati Uniti hanno provato a lanciare un’ancora: un piano umanitario guidato dalla Gaza Humanitarian Foundation (GHF), con il sostegno di Washington e la promessa di Israele di “facilitare” senza metterci le mani. Ma l’Onu ha detto no, secco e senza mezzi termini. E il motivo è una lezione di principio in un mondo che sembra aver smarrito la bussola: il piano non rispetta i valori di imparzialità, neutralità e indipendenza.
Farhan Haq, vice portavoce delle Nazioni Unite, non ha usato giri di parole: “Questo piano non è in linea con i nostri principi”. Più duro ancora Tom Fletcher, sottosegretario per gli Affari umanitari, che lo ha definito una “foglia di fico” per coprire altra violenza e sfollamento. L’Onu non ci sta a fare da comparsa in un’operazione che rischia di essere più propaganda che salvezza. Perché a Gaza, dove 2,1 milioni di persone vivono sull’orlo della carestia, come certifica il rapporto dell’IPC del 13 maggio, ogni mossa è un campo minato. E il sospetto che gli aiuti possano diventare moneta di scambio politico è più che fondato.
Dall’altra parte, gli Stati Uniti provano a difendere la loro iniziativa. Marco Rubio, segretario di Stato, parla di “opportunità” per aiutare i civili, purché Hamas non metta le mani sugli aiuti. Un’accusa, quella del furto da parte del gruppo palestinese, che Israele ripete come un mantra, mentre dal 2 marzo ha bloccato ogni assistenza umanitaria, legandola alla liberazione degli ostaggi. Hamas nega, ma il gioco delle parti è chiaro: ogni attore cerca di spostare la colpa, mentre i gazawi pagano il prezzo. Cinquantasette bambini morti di malnutrizione, dice l’Organizzazione mondiale della sanità. Numeri che dovrebbero far tremare le coscienze, ma che sembrano perdersi nel rumore di fondo.
La GHF, per smorzare le critiche, ha chiesto a Israele di ampliare i “siti sicuri” per la distribuzione degli aiuti e di lasciare che l’Onu riprenda il suo lavoro finché l’iniziativa non decollerà. Ma le promesse di Israele, come ha ribadito l’ambasciatore Danny Danon, sono vaghe: “Faciliteremo, ma non finanzieremo né gestiremo”. E il finanziamento della fondazione? Un mistero. Il Dipartimento di Stato giura che non ci saranno fondi pubblici americani, ma allora chi pagherà? David Beasley, ex capo del Programma alimentare mondiale, è stato ventilato come consulente, ma anche qui le voci si smentiscono. Tutto sembra improvvisato, fragile, sospetto.
E poi c’è il blocco israeliano, descritto da Human Rights Watch come “uno strumento di sterminio”. Otto settimane senza cibo, acqua, aiuti. Un piano, secondo HRW, per comprimere due milioni di persone in un angolo di terra sempre più piccolo, rendendo Gaza inabitabile. Parole pesantissime: pulizia etnica, crimini contro l’umanità, genocidio. La Convenzione del 1948, firmata da 153 Stati, impone di prevenire e punire. Ma dove sono le azioni? Gli Stati Uniti, la Francia, la Germania, l’Ue, il Regno Unito, tutti chiamati in causa da HRW, continuano a vendere armi a Israele, a offrire sostegno diplomatico, a evitare sanzioni. “Non agire è tradire la Convenzione”, tuona Federico Borello, direttore ad interim di HRW. Eppure, il silenzio è assordante.
Le dichiarazioni dei ministri israeliani non aiutano. Israel Katz: “Nessun aiuto entrerà a Gaza”. Itamar Ben-Gvir: “Non un grammo di cibo finché gli ostaggi sono nei tunnel”. Cinquantotto ostaggi ancora detenuti, di cui 23 forse vivi. Hamas, dal canto suo, ha rilasciato un cittadino israelo-statunitense, Edan Alexander, il 12 maggio. Gesti che non cambiano il quadro: Gaza è un’agonia in tempo reale, come la definisce l’Oms, e il mondo sembra guardare altrove.
Il rifiuto dell’Onu al piano USA è un atto di coerenza, ma anche un grido di allarme. Senza un’azione internazionale decisa, sanzioni, embargo sulle armi, pressione diplomatica, Gaza rischia di diventare un cimitero. La GHF, con o senza finanziamenti, non basterà. Servono corridoi umanitari veri, un cessate il fuoco, una volontà politica che superi i veti e le convenienze. Altrimenti, ogni piano sarà solo un cerotto su una ferita che continua a sanguinare.