Gaza. Katz, ‘le unità israeliane non si ritireranno dalle zone di sicurezza’

di Giuseppe Gagliano –

Con un’affermazione che suona come una dichiarazione di occupazione indefinita, il ministro della Difesa israeliano Israel Katz ha ufficializzato ciò che da mesi si intuiva sul campo: le Forze di Difesa Israeliane non lasceranno le “zone di sicurezza” istituite nella Striscia di Gaza, nel Sud del Libano e nelle aree contese della Siria. Non più operazioni chirurgiche, ma un radicamento militare a tempo indeterminato che segna una nuova fase nella strategia israeliana: l’estensione permanente della “linea di contatto” ben oltre i propri confini riconosciuti.
Katz ha parlato esplicitamente di un cuscinetto destinato a separare Israele dai suoi nemici, tanto nei casi di emergenza quanto in una nuova normalità bellica. Nella pratica, ciò si traduce in un controllo militare diretto su intere fasce territoriali, con un impatto devastante sulla popolazione civile, in particolare nella Striscia di Gaza, dove oltre 2 milioni di palestinesi sono stati compressi in uno spazio sempre più ridotto.
Israele controlla ormai i nodi strategici del Sud di Gaza – Rafah e Khan Younis – oltre a Netzarim e Shejaia, creando una vera e propria cintura di isolamento. Ma non si tratta solo di prevenzione: la scelta di non ritirarsi nemmeno parzialmente indica che Tel Aviv intende mantenere una pressione territoriale, psicologica e logistica costante, nel tentativo di riscrivere unilateralmente le regole del conflitto.
Dietro l’apparente razionalità della sicurezza nazionale, si delinea una strategia che – con il benestare della nuova amministrazione Trump – punta al ridisegno permanente della geografia politica della regione. Il blocco degli aiuti umanitari, la distruzione delle infrastrutture civili e il trasferimento coatto di popolazione non sono più effetti collaterali, ma strumenti deliberati. Katz stesso ha confermato che Israele sta costruendo “infrastrutture civili” per la futura distribuzione di aiuti, senza però revocare l’embargo, mentre si lavora a un piano di “emigrazione volontaria” dei gazawi verso altri Paesi. Un eufemismo per mascherare il dislocamento forzato.
La reazione della società israeliana non è unanime. Le famiglie degli ostaggi hanno accusato il governo Netanyahu di aver abbandonato la priorità del rilascio, preferendo invece la conquista territoriale. Sul tavolo, in effetti, non c’è alcun accordo reale: Hamas respinge categoricamente qualsiasi ipotesi di disarmo senza il ritiro completo delle truppe, il blocco è ancora attivo, e i negoziati per una tregua restano impantanati.
Intanto il prezzo umano continua a crescere. Le vittime palestinesi superano le 51mila, secondo i dati del Ministero della Salute di Gaza. Più della metà sono donne e bambini. La distruzione è tale che Medici Senza Frontiere ha definito l’enclave una “fossa comune”. Intere aree urbane sono state rese inabitabili e il 90% della popolazione è sfollata, spesso più volte.
Il quadro geopolitico si cristallizza intorno a una nuova dottrina israeliana: la deterrenza attraverso l’occupazione permanente. L’idea non è più quella di fermare Hamas, ma di ridefinire unilateralmente i confini della convivenza – o meglio, dell’inimicizia – regionale. Con l’avallo di Washington e l’immobilismo dell’ONU, Israele sta creando i presupposti per una nuova architettura post-bellica fondata non sulla pace, ma sullo spostamento forzato, la segregazione territoriale e l’annientamento politico dell’avversario.