di Giuseppe Gagliano –
In un Medio Oriente che continua a bruciare come una ferita aperta, la telefonata del 30 ottobre 2025 tra lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, primo ministro e ministro degli Esteri del Qatar, e Marco Rubio, segretario di Stato americano, assume i contorni di un atto diplomatico tanto necessario quanto ambiguo. Ufficialmente il colloquio si è concentrato sulla “stretta relazione strategica” tra Doha e Washington, con un’enfasi sulla necessità di garantire l’attuazione completa del cessate il fuoco a Gaza. Ma dietro le parole di circostanza emerge un nodo cruciale: il futuro di Hamas nella Striscia di Gaza, un tema che il Qatar, mediatore storico, non può ignorare.Ricordiamo il contesto.
Il cessate-il-fuoco, mediato da Stati Uniti, Qatar ed Egitto, è entrato in vigore solo pochi giorni prima, ma già mostra crepe profonde. Secondo fonti qatarine, lo sceicco al-Thani ha insistito sulla de-escalation e sul rispetto integrale dell’accordo, che prevede lo scambio di prigionieri, il ritiro parziale delle forze israeliane e l’ingresso di aiuti umanitari. Rubio, dal canto suo, ha ribadito l’impegno americano per la stabilità regionale, ma con un sottotesto chiaro: Washington vede in Hamas un ostacolo insormontabile alla pace duratura. Non è un segreto che l’amministrazione Trump 2.0, con Rubio al timone della diplomazia, punti a marginalizzare il movimento palestinese, accusato di aver violato il truce con azioni isolate, come ammesso dallo stesso primo ministro qatariota in recenti dichiarazioni.Il Qatar, però, gioca una partita complessa.
Da anni Doha ospita la leadership di Hamas, fornendo non solo asilo politico ma anche canali finanziari per la ricostruzione di Gaza. Questa posizione ha reso il piccolo emirato un attore indispensabile nelle negoziazioni, ma anche un bersaglio di critiche. Israele accusa il Qatar di finanziare il terrorismo, mentre gli Stati Uniti, pur riconoscendo il ruolo mediatore, esercitano pressioni per un distacco netto. La telefonata con Rubio arriva in un momento di tensione: solo una settimana prima, l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani aveva espresso dubbi sulle garanzie americane, citando intelligence su possibili mosse israeliane contro obiettivi qatarioti. È il classico gioco delle parti in Medio Oriente, dove alleanze si intrecciano con sospetti.Analizziamo le implicazioni. Per Hamas, il futuro a Gaza appare in bilico. Il movimento, nato dalla resistenza all’occupazione, ha governato la Striscia dal 2007, ma la guerra ha decimato le sue strutture. Il piano di pace trumpiano, evocato in conversazioni parallele tra Emirati Arabi Uniti e Qatar, prevede l’integrazione di Hamas in un quadro politico palestinese più ampio, forse sotto l’ombrello dell’Autorità Nazionale Palestinese.
Ma Rubio, falco repubblicano, spinge per una demilitarizzazione totale, ispirata ai modelli post-bellici. Qui entra in gioco la visione qatariota: lo sceicco Mohammed ha scambiato opinioni sul “ruolo futuro” di Hamas, proponendo emendamenti al cessate il fuoco che includano garanzie per la governance locale.
Senza Hamas, argomenta Doha, Gaza rischierebbe il caos, con fazioni jihadiste più estreme pronte a riempire il vuoto.Sul piano regionale, questa dinamica riflette il riallineamento post-Arab Spring. Il Qatar, isolato nel 2017 dal blocco saudita-emiratino, ha rafforzato i legami con Turchia e Iran, ma ora cerca un equilibrio con Washington per contrastare l’ascesa di Teheran. Rubio, fresco di visita in Israele, ha discusso con Netanyahu la demilitarizzazione, ma la Casa Bianca deve bilanciare il sostegno a Tel Aviv con la necessità di non alienare i partner arabi. Intanto, la Striscia soffre: con oltre 40mila morti dal 2023, secondo stime ONU, e infrastrutture distrutte, il cessate il fuoco è un palliativo. Hamas ha consegnato corpi di ostaggi israeliani, ma violazioni da entrambe le parti, cioè bombardamenti israeliani su presunti tunnel, razzi sporadici, minano la fiducia.In questo scacchiere, il Qatar emerge come ponte fragile. La sua strategia di “soft power”, cioè mediazione, aiuti, ospitalità, ha funzionato in passato, ma ora affronta il test supremo. Se Hamas venisse escluso, Doha perderebbe influenza sui palestinesi; se insistesse nel sostenerlo, rischierebbe sanzioni americane. Rubio, con il suo approccio ideologico, rappresenta la continuità della politica USA: priorità a Israele, containment dell’Iran, ma con un pragmatismo trumpiano che apre a deal imprevedibili. Guardando avanti, il futuro di Hamas dipenderà da fattori esterni: la tenuta del truce, le elezioni palestinesi (se mai si terranno) e l’evoluzione del fronte libanese con Hezbollah. Lo sceicco al-Thani ha invocato sforzi internazionali, ma in un mondo multipolare, con Russia e Cina che corteggiano il Medio Oriente, gli USA non sono più l’unico arbitro. Hamas potrebbe trasformarsi in un partito politico, come auspicato da Doha, o dissolversi in guerriglia perpetua.In conclusione, questa telefonata non è solo diplomazia di routine: è un sintomo della precarietà regionale. Il Medio Oriente, terra di cristiani, musulmani e ebrei un tempo coesistenti, merita più di accordi effimeri. Serve una visione che vada oltre gli interessi di potenza, riconoscendo il diritto palestinese all’autodeterminazione. Altrimenti, Gaza resterà una polveriera, e il ciclo di violenza continuerà.












