a cura di Vanessa Tomassini –
Nei futuri assetti mondiali e nelle scelte dei capi di Stato delle maggiori potenze internazionali, la geo-economia assume sempre più un ruolo di fondamentale importanza. Mentre l’argomento sembra essere poco conosciuto in Italia, già nel 1997 in Francia, nasceva l’École de Guerre Économique (EGE), la Scuola di Guerra Economica, su raccomandazione della Commission Intelligence Economique et Stratégie des Entreprises, presieduta da Henri Martre, manager dell’industria aerospaziale francese, nell’ambito del Commissariat Général au Plan (CGP), l’istituzione governativa fondata nel 1946 per la pianificazione economica francese, dal 2006 Centre d’analyse stratégique (CAS). Il professor Giuseppe Gagliano, direttore del Centro Studi “Carlo de Cristoforis”, nel suo ultimo volume “Sfide geoeconomiche – La conquista dello spazio economico nel Mondo contemporaneo”, pubblicato da Fuoco Edizioni, analizza le teorie sviluppate dai principali fautori della Scuola di Guerra Economica francese, Christian Harbulot e Jean Picot Duclos, sulle strategie della comunicazione geo˗economica, come mezzo di promozione del proprio “sistema˗paese” da parte delle Nazioni. Secondo Gagliano, nello scenario geopolitico odierno stiamo assistendo ad una crisi del multilateralismo e della globalizzazione. Mentre nel secolo scorso, gli USA dominavano la scena politica, economica, militare e tecnologica internazionale, imponendo agli altri Stati regole comuni da rispettare, oggi tale superiorità americana si è attenuata, lasciando spazio al “patriottismo economico” dell’amministrazione Trump, caratterizzato da misure protezioniste e mercantiliste. Inoltre, per effetto della globalizzazione, le frontiere delle Nazioni sono divenute nel corso del tempo porose ed hanno risentito dell’impatto di forze esterne, fuori del controllo dei governi: dalle MNC alla finanza, dalla grande criminalità transnazionale al terrorismo. L’imperversare di tali cambiamenti ha come conseguenza l’adeguamento della politica economica, o meglio dell’intelligence economica, di tutti gli Stati che stanno gradualmente riprendendo parte della loro sovranità, della loro libertà d’azione nello sforzo di proteggere i propri interessi nazionali, non solo con misure difensive, ma anche con azioni offensive, che vanno dalla disinformazione allo spionaggio economico. È proprio sui media infatti che si gioca gran parte di questa nuova guerra “cyber”. Mentre tutti sono molto attenti alle Fake News nella politica interna, nelle speculazioni di borsa e nella competizione fra le imprese, essa è meno evidente e studiata in campo geo˗economico, cioè nella competizione fra i Governi. Tale “cyber war”, a differenza delle guerre sul piano fisico o territoriale, è permanente ed incide notevolmente sul benessere dei cittadini e sulla stessa legittimità delle istituzioni. Un chiaro esempio è proprio il rapporto tra Italia e Francia, malgrado il nostro Paese vanti l’eccellenza di piccole e medie imprese (PMI) – con una bilancia commerciale mediamente positiva negli ultimi anni sui 50 miliardi di dollari, mentre la Francia ne ha una passiva della stessa entità- esso resta particolarmente vulnerabile. Tale vantaggio infatti – avvisa il professor Gagliano – non è destinato a durare senza un miglioramento della politica economica sistemica. In questo quadro va considerato non solo il ritorno degli Stati all’economia, ma anche e soprattutto del generale invecchiamento della popolazione del Bel paese che rende necessario un aumento della nostra competitività, non fronteggiabile dal solo dinamismo, inventiva e capacità commerciale dei nostri imprenditori. Gagliano, analizzando la “infowar” d’oltralpe, chiarisce l’importanza dell’arma comunicativa a favore della competitività nazionale e il valore di tracciare quelle che potrebbero essere logiche, strategie e tattiche della comunicazione istituzionale, rilevanza aumentata dal fatto che il tessuto produttivo italiano è incentrato sulle PMI. Queste ultime, infatti a differenza dei grandi colossi e delle multinazionali, non sono in grado di sviluppare autonomamente efficaci sistemi di comunicazione per la promozione dei propri prodotti, perciò è indispensabile un intervento dello Stato. Tale auspicata azione statale è ancora carente anche per la crisi del sistema politico e amministrativo, per la scarsa fiducia nelle istituzioni da parte degli operatori economici e anche per la frammentazione delle competenze e i tempi della giustizia civile, a cui corrisponde l’ambizione di molti magistrati d’intervenire in tutti i settori della società e dell’economia, con un approccio legalistico incompatibile con le esigenze e la realtà della competizione globale, sempre più disinvolta dei nostri competitors.
Negli ultimi anni i fronti principali in cui la guerra dell’informazione si è manifestata sono state le cosiddette primavere arabe, che più che primavere si sono rivelate dei veri e propri inverni. A differenza delle rivoluzioni colorate – spiega il direttore del centro studi – che si prefissavano come obiettivo il rovesciamento di governi ostili agli Stati Uniti, le insurrezioni popolari nel mondo arabo sono di tutt’altra natura e impongono alla potenza americana di impegnarsi nella difficile sfida di creare un nuovo ordine geopolitico nell’area MENA. Nel luglio del 2006, il tenente colonnello in congedo Ralph Peters ha pubblicato sull’Armed Force Journal un progetto del Pentagono che proponeva di ridisegnare la mappa del Medio Oriente frammentando Iraq, Siria e Arabia Saudita in piccoli Stati sulla base delle differenze religiose ed etniche, al fine di salvaguardare la sicurezza e gli interessi strategici ed economici americani nell’area. Per portare a termine questo processo di trasformazione denominato “Nuovo Medio Oriente” gli Stati Uniti, indeboliti dalla grave crisi economica degli ultimi anni, dovranno compiere sforzi considerevoli, non solo dal punto di vista economico ma anche politico e strategico, oppure sperare che i loro alleati nell’area, ossia le monarchie petrolifere di Qatar e Arabia Saudita, vi contribuiscano in modo più significativo. Le primavere arabe, una successione di movimenti sovversivi opposti a regimi autocratici e dispotici, hanno suscitato uno slancio di solidarietà su scala mondiale, canalizzato da ONG e organi d’informazione che fino ad allora non sembravano particolarmente interessati alla questione delle derive totalitarie nel mondo arabo. Per tanto è interessante analizzare come in questa delicata fase storica le potenze regionali e mondiali siano intervenute per destabilizzare regimi non più graditi, attraverso manovre strategiche, l’utilizzo di Internet e in particolare i social Network come Facebook e Twitter, per sovvertire i rapporti di forza grazie a un’efficace guerra dell’informazione. All’origine delle rivolte nel mondo arabo ci sono cause endogene, comuni a tutti i Paesi coinvolti, di natura politica, sociale ed economica. Le cause più propriamente politiche riguardano le divisioni sempre più acute nel mondo arabo: un fenomeno in controtendenza rispetto al movimento di ricomposizione strategica in grandi blocchi politici che è in atto nel resto del pianeta per valorizzare le possibilità della mondializzazione dei flussi economici e culturali. Un ulteriore elemento di arretratezza è il fatto che la maggior parte dei Paesi arabi, ottenuta l’indipendenza dopo la fine del colonialismo europeo, non si è dotata di uno Stato moderno in grado di garantire il pluralismo politico e religioso, la libertà di stampa, i diritti delle donne e in generale di promuovere lo sviluppo della società civile. Sotto i regimi arabi, il risentimento verso l’Occidente viene coltivato come una virtù e il potere, più preoccupato di autocelebrarsi che di risolvere i problemi della popolazione, è gestito con metodi arcaici, che prevedono la longevità indefinita dei leader, la frode elettorale, l’onnipotenza della polizia e una pericolosa sovrapposizione e confusione dei poteri. In Tunisia e in Egitto, dove il potere dispotico impedisce alle forze d’opposizione di guadagnare spazio politico, i movimenti laici che rivendicano un miglioramento delle condizioni di vita e maggiori diritti civili non fanno breccia negli strati più svantaggiati della popolazione, che semmai diventano terreno di conquista per la propaganda occulta dei partiti islamisti. Le cause economiche delle rivolte sono invece da ricercare in un modello di sviluppo concepito per servire gli interessi personali di una ristretta élite, fatta di politici e uomini d’affari legati tra loro. È importante notare inoltre come negli ultimi quarant’anni tutte le rivolte arabe sono esplose quando i prezzi dei beni di prima necessità sono saliti troppo, in Egitto e in Tunisia a scatenare inizialmente la protesta tra il 2010 e il 2011 è stato il carovita e l’inadeguatezza dei salari. Il mondo arabo ha registrato negli ultimi vent’anni la comparsa di una classe istruita che non ha potuto elevarsi socialmente: un dato confermato da un rapporto realizzato per conto del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (PNUD) e della Lega araba, da cui emerge che nei diciotto Paesi arabi il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Dopo aver analizzato le cause endogene il volume elenca quelle esogene, forse ancora più importanti. La natura spontanea delle primavere arabe infatti sono state tutte accompagnate da operazioni d’informazione da parte di Paesi non direttamente coinvolti, come Francia, Stati Uniti e Qatar. È stato dimostrato come strutture civili, fondazioni e associazioni militanti sono intervenute durante le rivolte, sostenendo le manifestazioni di protesta con meccanismi di “agit˗prop”. Una pedina importante utilizzata dal governo americano in questa delicata partita è Peter Ackerman, fondatore del Centro internazionale per i conflitti non violenti e produttore di documentari sulle strategie di conflitto non violente. Uno di questi documentari, intitolato “Bringing Down a Dictator”, descrive le vicende che hanno portato alla caduta del regime di Milošević, trasmesso dal canale Al-Jazeera per dar modo ai dissidenti egiziani di visionarlo durante le riunioni del Movimento giovanile del 6 aprile al Cairo. La diplomazia americana, secondo il professor Gagliano, è stata tra i primi a sfruttare al meglio le potenzialità della rete, trasformando Internet nel Che Guevara del XXI secolo, grazie al quale innescare e organizzare rivolte in ogni angolo del mondo. Facebook e Twitter stanno diventando sempre più strumenti nelle mani della Casa Bianca e di altri attori per promuovere la propria politica estera. Secondo Ross, l’esperto di diplomazia digitale 2.0 ingaggiato da Hillary Clinton per attuare la sua strategia di comunicazione sui social media, una delle missioni del Dipartimento di Stato americano è quella di modificare il modo in cui vengono percepiti gli Stati Uniti nel mondo arabo utilizzando le nuove tecnologie, le stesse utilizzate dalla galassia Jihadista per la campagna di reclutamento di Daesh ed al-Qaeda.
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