I presupposti teorici della geopolitica classica: la geografia scientifica di Alexander von Humboldt e di Karl Ritter, e la geografia politica di Friedrich Ratzel

di Lucio Cornelio Silla –

La Geopolitica Classica trova le sue radici teoriche nella Geografia Scientifica di Alexander von Humboldt e Karl Ritter e nella Geografia Politica di Friedrich Ratzel. Dalla visione unitaria e organica della Terra come sistema vivente elaborata da Humboldt e Ritter scaturì un metodo empirico e relazionale che Ratzel tradusse in chiave politico-organismica, concependo lo Stato come entità vitale in continuo rapporto con lo spazio. Su queste basi, le riflessioni strategiche di Alfred Thayer Mahan sul Sea Power e la successiva sintesi di Halford J. Mackinder posero le fondamenta della Geopolitica Classica come scienza delle relazioni fra potenza e spazio, tra terra e mare, tra l’uomo ed il suo organizzarsi politico, il tutto, svolgentesi sulla struttura geografica del mondo.

Nonché, va necessariamente osservato con onestà intellettuale, come, la cosiddetta Geopolitica Classica rappresenti una categoria storico-teorica posteriore, la quale fu elaborata nell’ultimo cinquantennio, rispetto agli autori a cui si riferisce e che ne costituiscono il nucleo fondativo. Infatti, essa si riferisce, ad un insieme di pensatori attivi tra la fine del XIX e la metà del XX secolo, i quali, pur essendo oggi considerati padri della disciplina, non si definirono necessariamente “geopolitici” essi stessi. Non a caso, molti di loro, infatti, utilizzarono terminologie diverse, spesso più in linea con la tradizione geografica e/o storiografica e/o strategica da cui provenivano.
Un esempio emblematico di tutto ciò è quello dell’inglese Halford J. Mackinder (1861 – 1947), autore della celebre teoria dell’Heartland. Difatti, pur essendo comunemente annoverato tra i principali fondatori della Geopolitica Classica, Mackinder stesso preferiva definirsi geografo politico piuttosto che “geopolitico”. Non solo: egli criticava apertamente la Geopolitik tedesca, non tanto per il suo determinismo geografico, quanto per quella che considerava un’eccessiva arbitrarietà filosofica, ossia la tendenza a fondare l’analisi geopolitica su punti di vista e aspettative delle idee politiche e filosofiche del proponente, tali da renderla eccessivamente arbitraria.

Analogo fu il caso di James Fairgrieve (1870 – 1953), che si considerava geografo storico, pur essendo anch’egli parte integrante della tradizione della Geopolitica Classica per le sue riflessioni sui rapporti fra spazio, storia e potere. Formatasi nell’ambiente della scuola geografica britannica di fine Ottocento, la sua opera si sviluppò in stretta relazione con quella di Halford J. Mackinder, di cui fu discepolo e collaboratore presso l’Università di Oxford. Geografo, storico e pedagogo, Fairgrieve svolse un ruolo importante nello sviluppo della geografia come disciplina educativa e interpretativa nel mondo anglosassone. Nella sua opera principale, Geography and World Power (1915), egli sostenne che la geografia fornisce la base razionale per comprendere le interrelazioni e le tensioni internazionali, ponendo l’accento sul legame fra la distribuzione spaziale delle risorse, la morfologia territoriale e l’evoluzione storica delle civiltà. Pur mantenendo una prospettiva più storicista e meno strategico-militare rispetto a quella del suo maestro, egli condivise con Mackinder l’idea che la conoscenza geografica dovesse essere connessa con lo sviluppo della società e della politica, anticipando così quella visione integrata spazialità e potere, che è la comune caratteristica della cosiddetta Geopolitica Classica.

Nonché, così com’è noto, il termine Geopolitik – che viene ovviamente ripreso nella dicitura e categorizzazione Geopolitica Classica – fu coniato dallo svedese Rudolf Kjellén (1864 – 1922) in Staten som lifsform, cioè Lo stato come forma di vita (o meglio Lo stato come organismo vivente), nel 1916. Nonché, successivamente, fu ulteriormente sviluppato, reso famoso, e sistematizzato nella celebre Scuola di Geopolitica di Monaco di Baviera sotto la guida di Karl Haushofer (1869 – 1946) e dalla sua pubblicazione a stampa dei famosi Zeitschrift für Geopolitik, cioè Quaderni di Geopolitica, iniziata nel 1924, e di una serie di minori riviste popolarizzanti tali temi in quegli anni.

Ad ogni modo, il termine Geopolitica Classica non si rifà esclusivamente alla Geopolitik tedesca, ma possiede un significato più ampio e articolato. Esso non nacque infatti come categoria coeva agli autori che oggi ne costituiscono il riferimento, bensì come definizione storiografica successiva, elaborata nella seconda metà del Novecento per individuare e sistematizzare una tradizione di pensiero sviluppatasi tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. La Geopolitica Classica è dunque una costruzione concettuale retrospettiva, volta a comprendere, sotto un’unica denominazione, diverse scuole e orientamenti che, pur differendo per metodo e finalità, condivisero l’obiettivo di interpretare l’azione politica alla luce dei fattori spaziali, geografici e strutturali di potenza.

Ad ogni modo, la Geopolitica Classica possiede dei presupposti teorici fondamentali, che ne costituiscono le radici concettuali e metodologiche. Il primo di essi non si trova propriamente nella riflessione geopolitica in senso stretto, che sarebbe venuta a maturazione solo nel primo Novecento, ma nelle elaborazioni strategiche e geografiche che precedettero la sua formulazione sistematica. In tal senso, un punto di riferimento essenziale è rappresentato dal pensiero di Alfred Thayer Mahan (1840–1914), ufficiale della marina e storico statunitense, considerato il principale teorico del Sea Power. Nelle sue opere fondamentali, The Influence of Sea Power upon History, 1660–1783 (1890) e The Influence of Sea Power upon the French Revolution and Empire, 1793–1812 (1892), Mahan analizzò il ruolo decisivo della potenza marittima nella storia delle relazioni internazionali, sostenendo che il controllo delle rotte oceaniche e dei nodi strategici del commercio mondiale fosse la condizione imprescindibile per l’espansione economica e politica degli Stati. Il suo approccio, basato su una rigorosa osservazione storica e sulla correlazione fra geografia, economia e potere militare, costituì il primo tentativo moderno di interpretare la politica mondiale in chiave spaziale. Specificamente, Mahan individuò cinque caratteristiche fondamentali, presupposte, come la posizione geografica, la morfologia e dotazione territoriale, la configurazione costiera, la popolazione ed il carattere del popolo, come i fattori determinanti della potenza navale e del potere marittimo di una nazione. A cui si vanno ad aggiungere altre considerazioni, frutto queste delle scelte strategiche di alta politica, come lo sviluppo, disponibilità di porti e basi navali, lo sviluppo delle dimensioni della flotta (totale, anche mercantile, non solo militare), e nella coltivazione dello spirito marittimo della popolazione (proprio per la loro sussistenza, indicatore di un certo tipo di sviluppo economico, antecedente e spinta per un certo sviluppo strategico). Tale visione, profondamente empirica e strategica, influenzò non solo la dottrina navale sia americana che di altre potenze, ma anche l’intera “riflessione geopolitica” successiva d’ogni dove. Dunque, è proprio il profondo ponderare sull’idea di competizioni, equilibri, e contrapposizioni globali definite dalla contrapposizione tra potenze marittime e potenze terrestri – versioni più o meno ibride delle due (che non sanno, in modo critico, svilupparsi decisamente ad esempio come una vera e propria potenza navale capace di slanciarsi lungo gli oceani verso ogni dove) – costituì la premessa logica e teorica da cui Halford J. Mackinder avrebbe poi elaborato la celebre teoria dell’Heartland, trasponendo la logica “mahaniana” dal dominio marittimo e delle sue caratteristiche di proiezione verso un blocco continentale (come quello dei controllori dell’ Heartland da lui geograficamente individuato).

Nonché, il secondo – e più importante in assoluto – presupposto della Geopolitica Classica si radica nella Geografia Scientifica tedesca, che tra la fine del Settecento e l’Ottocento elaborò un metodo rigoroso, empirico e teoretico, fondato sull’osservazione sistematica dei rapporti fra ambiente, e ciò che, vivente e non vivente, esiste in esso. Tale tradizione, sistematizzata da Alexander von Humboldt (1769–1859) e Karl Ritter (1779–1859), rappresenta la matrice metodologica e concettuale da cui la Geografia Politica, e più in generale quella che viene definita la Geopolitica Classica, trasse le proprie basi. Entrambi furono autori di opere monumentali, il Kosmos (1845–1862) per Humboldt e la Die Erdkunde im Verhältniss zur Natur und zur Geschichte des Menschen (1817–1859) per Ritter, attraverso le quali la Geografia si affermò come disciplina autonoma, dotata di un proprio statuto epistemologico e di un linguaggio scientifico unitario.

In primo luogo, dunque, Alexander von Humboldt, fratello del celebre linguista e pedagogista Wilhelm von Humboldt, rappresenta la figura fondativa della Geografia Scientifica moderna. Naturalista, fisico, botanico, esploratore e filosofo della natura, egli incarnò l’ideale illuminista dell’uomo di scienza capace di coniugare la sperimentazione empirica con la riflessione teorica. La sua formazione enciclopedica e la sua instancabile curiosità lo condussero a concepire la geografia come scienza unitaria della Terra, capace di spiegare la connessione organica tra fenomeni fisici, biologici e umani (su molteplici livelli, dal particolare al generale, e viceversa). Le sue grandi spedizioni in America Latina (1799–1804) e in Asia centrale (1829) non furono semplici viaggi esplorativi, ma veri laboratori scientifici, nei quali la raccolta sistematica dei dati sul clima, la morfologia, la flora e la fauna si tradusse in un disegno interpretativo della totalità naturale.

Nel Kosmos (1845–1862), Humboldt elabora una visione dell’universo come organismo interconnesso, governato da leggi di relazione e di equilibrio. La Terra è, per lui, un tutto unitario in cui ogni elemento – minerale, vegetale, animale o umano – partecipa a un ordine armonico. L’empirismo di Humboldt non è un accumulo di dati, ma un metodo conoscitivo: osservare, misurare e comparare serve a riconoscere le leggi immanenti della natura. La sua Geografia Scientifica nasce dall’esperienza concreta, ma tende alla totalità del reale; essa non descrive, ma spiega la struttura vitale del pianeta.

Perciò, emblematica di questa rivoluzione concettuale fu la creazione delle mappe isotermiche (1817), con le quali Humboldt rappresentò per la prima volta la distribuzione climatica del globo come sistema continuo e interdipendente. Le isolinee di temperatura media, tracciate a partire da misurazioni condotte in tutto il mondo, univano regioni lontane ma accomunate dalle stesse condizioni termiche, mostrando che la vita non si distribuisce per latitudine o confini, bensì secondo zone di vitalità climatica. Tale rappresentazione segnò un momento di svolta: lo spazio geografico cessava di essere superficie inerte per diventare spazio vivente, articolato in base a ciò che in esso esiste ed è vivo. Le isoterme introdussero così un nuovo modo di pensare e di rappresentare la Terra: non più mappa dei luoghi, ma mappa delle relazioni vitali.

Non a caso, questa innovazione metodologica, apparentemente cartografica, ebbe conseguenze epistemologiche decisive. Difatti, essa pose le basi per una concezione dinamica e relazionale dello spazio, in cui la geografia non è più la descrizione di un paesaggio, ma la comprensione dei processi che lo strutturano. La mappa isotermica diventa uno strumento cognitivo, una forma di pensiero che traduce la complessità del mondo in pattern intelligibili: il clima, la vegetazione, le altitudini e le correnti marine si uniscono in un’unica rappresentazione vitale. Da qui discende la visione moderna della Geografia Scientifica come scienza della totalità del vivente, che fonde empirismo e teoresi, misura e senso, esperienza e visione.

In secondo luogo, dunque, Karl Ritter, di poco più giovane e a lungo docente all’Università di Berlino, porta a compimento questa trasformazione metodologica, conferendo alla geografia una vera struttura epistemologica sistematica. Se Humboldt aveva fondato la scienza della Terra sull’osservazione e sull’interconnessione, Ritter ne costruì il sistema, ponendo al centro il rapporto tra l’uomo e il suo ambiente. Nella sua monumentale Die Erdkunde im Verhältniss zur Natur und zur Geschichte des Menschen (1817–1859), egli concepisce la Terra come teatro della storia umana, luogo in cui le forme naturali e le civiltà interagiscono secondo un ordine intelligibile. La sua formula, “comprendere l’unità delle cose nella diversità”, esprime il cuore del suo metodo: la Geografia Scientifica come scienza delle relazioni fra natura e storia (l’uomo nello spazio).

Specificamente, la riflessione di Karl Ritter è sorretta da una profonda cristianità protestante vissuta nel modo più vivo e forte intimamente, che interpreta la conoscenza del mondo come via di comprensione del disegno divino (comprendere il mondo, la realtà, nelle sue basi del reale, empiriche e dure, ridà all’uomo conoscenza del disegno divino, avvicinando l’uomo a Dio). Tuttavia, la sua fede non limita ma potenzia la ricerca scientifica: in quanto la verità della natura è per lui conoscibile attraverso l’esperienza e la ragione. Da questa visione nasce un positivismo realistico estremamente empirico, fondato sulla convinzione che le leggi del mondo siano immanenti al reale e scopribili mediante l’osservazione. Perciò Ritter non deduce né induce leggi astratte: egli riconosce le regolarità già presenti nella realtà. Il suo metodo si fonda sulla descrizione accurata, sulla comparazione e sulla constatazione empirica delle connessioni che legano l’ambiente alle forme di vita e alle strutture sociali.

In questa prospettiva, Ritter trasforma la mera geografia in Geografia Scientifica, cioè in una scienza delle relazioni concrete. L’ambiente non è più sfondo, ma fattore attivo del divenire storico; la natura non è semplice cornice, ma principio ordinatore. Il sapere geografico, nel suo pensiero, è un sapere totale: empirico nella raccolta dei dati, teoretico nella loro interpretazione. La sua Geografia Scientifica è al tempo stesso fedele alla realtà e orientata alla comprensione delle sue leggi, fondata sulla certezza che il mondo sia intelligibile attraverso l’esperienza. In lui, la vocazione teologica della religiosità protestante e la razionalità scientifica si fondono in una visione organica della conoscenza, profondamente positivista, che però, sistematicamente costruisce una Geografia Scientifica, che sia certa, e che sia pienamente intesa come scienza.

Dunque, insieme, Humboldt e Ritter fissarono l’impianto metodologico della Geografia Scientifica tedesca: empirica ma non meccanica, positiva ma non riduzionista, radicata nei fatti ma aperta alla totalità del reale. L’uno, illuminista ed empirista, vide nella natura un tutto vivente; l’altro, cristiano e positivista, vi riconobbe un ordine conoscibile e razionale. Le mappe di Humboldt e le sistematizzazioni di Ritter costituirono i due pilastri della moderna concezione dello spazio, preparando il terreno per le future elaborazioni della Geografia Politica e della cosiddetta Geopolitica Classica. La loro opera non solo fondò una disciplina, ma rivoluzionò il modo stesso di pensare lo spazio: non più semplice scenario dell’azione umana, ma organismo vivente, unità vitale di forme, climi e civiltà.

Su questa base si innesta l’elaborazione di Friedrich Ratzel (1844–1904), il quale, con la sua Anthropogeographie (vol. I, 1882; vol. II, 1891) e successivamente con la Politische Geographie (1897), fornì i fondamenti concettuali su cui la Geopolitica Classica – in tutte le sue declinazioni, continentale e marittima – si sarebbe poi sviluppata. In Politische Geographie, Ratzel definiva la disciplina come “la scienza dello Stato in quanto organismo nello spazio”. Dunque, così, sancendo il definitivo superamento della geografia descrittiva e la nascita di una scienza interpretativa capace di spiegare le relazioni vitali tra lo Stato (organizzazione di uomini), il territorio, e l’ambiente. In questa definizione si condensa l’idea cardine del suo pensiero: lo spazio non è un semplice scenario, ma un principio attivo dell’esistenza politica, un campo vitale in cui agiscono forze biologiche, economiche e culturali.

Formatosi inizialmente attorno a studi naturalistici e zoologici, Ratzel dedicò le sue prime ricerche allo studio delle specie animali e delle loro modalità di adattamento e diffusione. Analizzando la distribuzione dei viventi sulla superficie terrestre, egli osservò che tutte le forme di vita competono per il controllo dello spazio e delle risorse. Nella natura, la lotta per la sopravvivenza si manifesta come competizione spaziale, poiché ogni organismo tende a espandersi, contrarsi o spostarsi in funzione della propria energia vitale e della disponibilità ambientale. Da questa visione nacque il concetto di Lebensraum, cioè Spazio vitale, con cui Ratzel designava la porzione di superficie terrestre entro cui una specie trova le condizioni di vita più favorevoli. Tale spazio non è fisso, ma variabile e plastico, capace di modificarsi in relazione alla forza, alla densità e all’organizzazione del soggetto che lo occupa.

Trasponendo questa legge naturale al mondo umano, Ratzel giunse alla sua più celebre formulazione: gli Stati competono nello spazio come organismi viventi, ma con una differenza sostanziale rispetto al mondo animale. L’uomo, infatti, non si limita ad adattarsi all’ambiente, bensì lo trasforma, ne modifica la struttura e il significato attraverso il lavoro, la tecnica, l’economia e la cultura. Lo spazio umano è quindi uno spazio costruito e organizzato, modellato dalla volontà collettiva e dalla capacità di dominio razionale sulla natura. In questa prospettiva, la politica si presenta come una manifestazione della vita stessa, cioè una funzione vitale della collettività, espressione della tensione tra la necessità di stabilità e l’impulso all’espansione. Dunque, l’ambiente impone condizioni e limiti, ma è l’uomo, con la sua energia e la sua organizzazione, a dare forma e senso alla realtà territoriale.

Nella Politische Geographie, Ratzel concepisce lo Stato come un organismo unitario, dotato di Lebensfunktionen – Funzioni vitali (od anche concepibili come Componenti vitali e/o Parti vitali) – che ne assicurano la sopravvivenza e la coesione. Tra queste rientrano la produzione, la difesa, la comunicazione e la connessione territoriale, tutte attività che presuppongono un rapporto diretto e continuo con lo spazio. Lo Stato si struttura attorno a codeste parti, che possono essere più concentrate in una certa area, ossia il nucleo più densamente organizzato e produttivo del territorio, e dispone di uno spazio vitale (Lebensraum), più ampio e fluido, nel quale si espande o si ritrae in base alla propria forza. L’equilibrio fra questi due poli – nucleo e spazio vitale – determina il grado di stabilità e potenza di uno Stato. La competizione tra Stati, dunque, non è soltanto militare o economica, ma spaziale: si misura nella capacità di organizzare, connettere e integrare il proprio territorio, e nella forza con cui un organismo politico sa mantenere vive – od anche estendere – le proprie funzioni e componenti vitali nello spazio circostante.

Da questa concezione nasce una nuova visione dello spazio politico come spazio vitale, ossia come rete dinamica di relazioni tra ambiente e società. La posizione geografica, la morfologia del territorio, le risorse, la cultura e la tecnica si intrecciano in un sistema di equilibri che definisce l’identità e la potenza di uno Stato. La vita politica diventa così una forma di adattamento e di trasformazione dello spazio, un processo vitale e storico insieme. La geografia, da disciplina descrittiva, diviene scienza interpretativa delle relazioni tra potenza e ambiente, fondata sull’osservazione empirica e sulla comprensione dei processi di organizzazione dello spazio umano. In questa sintesi – dove la competizione vitale della natura trova la sua analogia nella competizione politica degli Stati, e dove la volontà umana introduce la capacità di modificare lo spazio stesso – si compie la piena maturità della Geografia Politica moderna. Ratzel pone così le basi teoriche della Geopolitica Classica, fondando l’idea che il potere non possa essere compreso se non attraverso la vita dello spazio e le leggi della sua trasformazione.

Dunque, questo è il motivo per cui tutto ciò costituisce il presupposto teorico della Geopolitica Classica: Halford J. Mackinder (1861–1947) costruì infatti il proprio metodo scientifico importando e adattando alla tradizione britannica i principi epistemologici e metodologici della Geografia Scientifica tedesca. Fin dal suo saggio On the Scope and Methods of Geography (Proceedings of the Royal Geographical Society, 1887, pp. 141–174), Mackinder manifestò l’intento di emancipare la geografia inglese dalla sua tradizionale funzione descrittiva e coloniale, per conferirle un carattere teorico e interpretativo. La geografia britannica ottocentesca, fortemente legata al dominio marittimo e alla pratica statistico-esplorativa, tendeva a concepire lo spazio come estensione amministrabile o risorsa economica da censire. Mackinder ruppe con questa impostazione, ritenendola inadeguata a spiegare la struttura globale del potere. Egli propose, invece, di fondare la geografia su basi metodologiche scientifiche, capaci di cogliere le relazioni profonde fra spazio e organizzazione politica, e di interpretare il territorio come fattore dinamico e strategico della storia. La geografia, nella sua prospettiva, doveva diventare una disciplina esplicativa delle leggi spaziali della potenza e delle interazioni vitali fra ambiente e civiltà.

Questa rivoluzione concettuale derivò direttamente dall’assimilazione e dalla rielaborazione critica dei principi elaborati dalla scuola tedesca di Alexander von Humboldt, Karl Ritter e Friedrich Ratzel. Da Humboldt, Mackinder riprese la visione della Terra come organismo unitario e interdipendente, retto da leggi naturali e sistemiche; da Ritter, l’idea di una geografia fondata sull’analisi comparata delle relazioni tra natura e storia, capace di individuare nelle forme del suolo la trama dei processi umani; da Ratzel, infine, assimilò la concezione dinamica dello spazio politico come campo vitale di competizione e adattamento. Mackinder fece però un passo ulteriore: depurò tali eredità dagli elementi idealistici, teleologici e biologici, riformulandole in chiave empirico-strategica. Nel suo saggio The Physical Basis of Political Geography (Scottish Geographical Magazine, 1890, pp. 78–84), egli definì la geografia politica come lo studio delle forze fisiche e dinamiche che influenzano la distribuzione del potere sulla superficie terrestre, spostando l’attenzione dalla semplice descrizione dei confini alla comprensione delle strutture spaziali della potenza. Così, Mackinder trasformò la geografia britannica da scienza dei territori a fini economici, esplorativi, ed amministrativi ad alta scienza del potere, fondando l’orizzonte epistemologico della Geopolitica Classica come analisi delle relazioni vitali tra potenza e spazio, sulle basi geografiche dure, teatro di codeste dinamiche.

Dunque, infine, ed in conclusione, la Geopolitica Classica rappresenta la sintesi più alta tra scienza e potere, tra la conoscenza empirica della Terra e la comprensione strategica della storia. Nata dall’eredità della Geografia Scientifica di Humboldt e Ritter e sistematizzata da Ratzel nella sua Geografia Politica, dove espresse la visione dello Stato – cioè della potenza dell’uomo politicamente organizzato – come organismo vivente, integrando la riflessione strategica di Mahan, trovò in Mackinder la propria piena maturità teorica. Cotale fusione di geografia, politica e strategia emerse una disciplina capace di interpretare il mondo come campo vitale di forze in relazione nello spazio. In ciò risiede l’attualità della Geopolitica Classica: essa continua a fornire la chiave per comprendere la trama profonda che lega la potenza all’ordine della Terra.