Il Caucaso in fiamme

di Marco Corno

Una nuova guerra è scoppiata nel Caucaso tra l’Armenia e l’Azerbaijan per il controllo del Nagorno-Karabakh: un conflitto congelato dal 1994 ma mai del tutto risolto e che affonda le proprie radici alla fine del XIX secolo, quando il problema dell’indipendentismo armeno (1880-1890) spinse il sultano ottomano a reprimere le rivolte nel sangue.
L’attuale scontro azero-armeno non è un “conflitto religioso” ma un vero e proprio conflitto geopolitico in cui sono in gioco spazi geografici per fini strategici.
Il Caucaso infatti è al centro degli interessi geopolitici di Russia, Turchia e Iran, essendo contemporaneamente sia “cerniera” di questi tre ex imperi sia zona di conflitto dato che nel corso della storia hanno sempre cercato di imporre un proprio dominus per la proiezione strategica che il controllo di questa regione garantisce nel heartland eurasiatico.
In questo conflitto l’Azerbaijan è il paese che più cerca di sfruttare la propria posizione geografica per attirarsi la simpatia delle potenze limitrofe. Baku spera che la risoluzione del cliché del Nagorno-Karabakh gli permetta di diventare lo stato pivot del Caucaso e accresca la propria statura nella comunità internazionale a scapito dell’Armenia. Il progetto geopolitico del “Grande Azerbaijan” prevede la riconquista dei territori azeri persi durante la guerra contro l’Armenia (1991-1994) e il mantenimento della propria sovranità sull’auto-proclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh, vero ostacolo alle ambizioni politiche del paese.

Facendo leva sul proprio peso geografico l’Azerbaijan si è garantito l’appoggio della Turchia e di Israele che più di tutti vogliono un rafforzamento dell’Azerbaijan per differenti interessi geopolitici.
La Turchia considera gli azeri dei fratelli con cui è fondamentale instaurare una “special relationship”, molto simile a quella esistente tra la Russia zarista e la Serbia nella prima parte del XX secolo, in modo da trasformare l’Azerbaijan in uno stato satellite all’interno della sfera di influenza pan-islamica turca. Ankara spera in questo modo di rafforzare il proprio smart power a scapito di quello russo, ostracizzando l’Armenia e sfruttando l’attuale inerzia del conflitto molto più a favore di Baku che non di Erevan, che in questo momento si trova isolata e in una posizione di vulnerabilità. Questo è leitmotiv per cui la Turchia fornisce sostegno militare e logistico e invia, stando alle accuse confermate dal presidente francese Emmanuel Macron, jihadisti siriani nel Caucaso a combattere a fianco degli Azeri. Chiaramente il governo turco non vuole entrare direttamente in una guerra tout court con l’Armenia perché finirebbe per subire gli effetti dell’iperestensione, ma spera in una guerra veloce che permetta all’Azerbaijan di riconquistare i territori persi.
Israele invece considera il rafforzamento dell’Azerbaijan in funzione anti-iraniana più che anti-russa. Tel Aviv vede questo conflitto come una grande possibilità per allargare il fronte del contenimento dell’Iran, “rafforzatosi” dopo la firma degli accordi di Abramo con EAU e Bahrein, spingendo la Repubblica Islamica dell’Iran ad aprire un nuovo fronte di guerra nel Nagorno-Karabakh nella speranza che si inneschino delle forze centrifughe endogene al paese che mettano ulteriormente in crisi il regime degli ayatollah.
Tutto con il tacito consenso americano, che con l’appello alla moderazione del Segretario di Stato Mike Pompeo invita le parti più che ad una de-escalation, a mantenere il conflitto ad un livello di intensità bassa in modo da rodere contemporaneamente sia l’influenza russa sia l’influenza iraniana, ricordando alla Turchia che il suo operato è legittimato fino a quando i suoi interessi coincideranno con quelli americani. Infatti l’assillo di Washington è che la diatriba azero-armena vada a favorire il potenziamento della proiezione strategica della Turchia e non un indebolimento contemporaneo delle tre sfere di influenza russo-turco-iraniana qualora la situazione dovesse piombare nel caos.

Dall’altro lato la Russia è fortemente preoccupata dello sviluppo delle vicende nella regione perché non vuole disordini “alla porta di casa”, consapevole che il nuovo conflitto azero-armeno potrebbe dare vita ad un forte revanscismo delle minoranze etniche caucasiche all’interno e nelle zone limitrofe dei propri limes nazionali.
Mosca durante la guerra russo-georgiana (2008) e la guerra civile ucraina (2013-2015), ha ampiamente dimostrato con l’intervento manu militari in Georgia e la ripresa della Crimea (2014) che non tollera destabilizzazioni ai propri confini e che se necessario è pronta ad usare la forza per mantenere lo status quo. Con questa prospettiva, la mediazione russa tra Armenia e Azerbaijan, è un chiaro messaggio a tutte le potenze determinate a mettere in discussione il primato del Cremlino in questa area.
Vladimir Putin però si trova in una posizione difficile consapevole che se la situazione dovesse “sfuggire di mano” si troverebbe costretto a intervenire militarmente a fianco o dell’Armenia o dell’Azerbaijan con il rischio però di perdere i buoni rapporti diplomatici con uno dei contendenti. I russi, proprio per impedire uno simile scenario, spingeranno per un accordo di pace in cui il Cremlino farà del Nagorno-Karabakh un enclave russo molto simile a quello di Kaliningrad, in modo da creare un “protettorato cuscinetto” che impedisca una “balcanizzazione” del Caucaso e possa creare uno scenario molto simile a quello siriano seppur in un’area fortemente circoscritta. In tale modo la Russia manterrebbe il ruolo di deus ex machina e una proiezione militare in tutta l’area qualora ce ne fosse la necessità. Inoltre un protettorato russo nel Nagorno-Karabakh avrebbe anche una grande funzione di deterrenza nei confronti della Turchia.

(Foto Notizie Geopolitiche / GB).
L’Iran dal canto proprio si trova in una situazione ancora più difficile. L’apertura di un nuovo fronte sarebbe problematico per Teheran perché amplierebbe ancora di più il proprio impegno nella regione, in un momento in cui la sfera di influenza persiana necessita più di un consolidamento interno che di una sua ulteriore espansione. Ma al tempo stesso, un po’ come la Russia, non può permettersi un Azerbaijan forte, alleato di Israele e della Turchia, che metterebbe sempre più sotto pressione l’integrità territoriale dell’Iran. La scelta tattica dell’Iran quindi sarà probabilmente un appoggio militare netto all’Armenia e alla Repubblica del Nagorno-Karabakh. Sul piano più strettamente diplomatico, l’Iran giocherà a dividere i già poco alleati Turchia e Israele, in nome del comune interesse nello scongiurare una forte presenza israeliana vicino ai propri confini che rischia di creare problemi di integrità territoriali a causa della questione curda.
La continua spirale di violenza nel Nagorno-Karabakh di questi ultimi giorni segna un punto di non ritorno nella storia di questa regione. A differenza dell’escalation di luglio e della guerra dei 4 giorni (2016), questa volta le fazioni sembrano determinate a non terminare i combattimenti fino a quando non ci sarà un chiaro vincitore, come sta dimostrando il prolungarsi nel tempo della crisi. In un simile contesto è difficile tornare ad uno status quo ante bellum, il cessate il fuoco mediato dalla Russia tra le due repubbliche è già fallito ancora prima di entrare in vigore.
Questo conflitto, finora considerato marginale, apre un nuovo scenario geopolitico che potrebbe diventare centrale per il balance of power non solo del Caucaso ma anche del Mediterraneo Orientale, della Siria e dei Balcani in cui Erdogan ricopre sempre di più un ruolo preminente.
A un secolo dalla caduta dell’impero ottomano e dalla drammatica pace di Versailles (1919), le cicatrici di quelle vicende hanno gettato le basi per gli attuali conflitti in Medio Oriente e adesso nel Caucaso. Forse stiamo assistendo ad una nuova guerra di Versailles che sarà tutt’altro che marginale.