Il conflitto israelo-palestinese e la comunità internazionale

di Maurizio Delli Santi * –

Non sono rassicuranti le ultime notizie sul nuovo conflitto armato sorto tra le componenti oltranziste palestinesi rappresentate dai miliziani di Hamas e del Movimento per il Jihad Islamico in Palestina contro Israele e lasciano prevedere una escalation destinata a lasciare sul campo nuove vittime innocenti e distruzioni da entrambe le parti. Come è ormai consuetudine nella interpretazione delle vicende del conflitto israelo-palestinese, per chi non è coinvolto in schieramenti ideologici o religiosi non sempre è possibile giustificare oggettivamente le posizioni dell’una o dell’altra parte.
Ne è un esempio, la linea assunta dal Prosecutor della Corte penale internazionale (CPI), Fatou Bensouda. La CPI ha ricevuto denunce per i bombardamenti in territori palestinesi e per il lancio di razzi in quelli israeliani compiuti del 2014, e per altri fatti connessi, e il Prosecutor ha avviato le relative inchieste tanto nei confronti dei responsabili israeliani quanto di quelli di Hamas. Anche per questi ultimi scontri Bensouda si è espressa con una posizione equidistante affermando che “Noto con profonda preoccupazione l’escalation della violenza in Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, così come dentro e intorno a Gaza», ha detto il procuratore generale, riferendosi anche alla «possibile commissione di crimini nell’ambito dello Statuto di Roma”. La cautela – in questo caso anche “diplomatica” – del Prosecutor si evince da un’altra circostanza: non ha fatto cenno alla norma introdotta dalla Conferenza di Kampala che potrebbe consentire al Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite di avviare innanzi alla CPI un procedimento per il reato di “aggressione internazionale”, che configura la responsabilità penale internazionale punibile innanzi alla Corte nelle condotte di “pianificazione, preparazione, inizio o esecuzione, da parte di una persona in grado di esercitare effettivamente il controllo o di dirigere l’azione politica o militare di uno Stato, di un atto di aggressione che, per il suo carattere, gravità e portata, costituisce una manifesta violazione della Carta delle Nazioni Unite” (art. 8 bis dello Statuto della CPI).

In linea generale le valutazioni degli analisti sull’ultima escalation di violenza sono ancora polarizzate: da un lato si sostiene le legittimità della tutela territoriale e della reazione armata di Israele, dall’altro si sottolineano le provocazioni israeliane e le condizioni di esclusione e avvilimento sociale in cui si ritengono costretti e vivere i palestinesi dei territori occupati.
Rimanendo sull’approccio delle regole di diritto internazionale, almeno in una prima approssimazione, in questo caso è difficile non valutare la sproporzione tra il primo lancio di razzi da parte di Hamas su Israele rispetto ai pure discutibili interventi della polizia israeliana nei confronti dei palestinesi. Hamas infatti avrebbe reagito così per reazione alla repressione israeliana della manifestazione sulla porta di Damasco indetta contro gli sgomberi delle famiglie palestinesi nel quartiere Sheikh Jarrah. D’altro canto la reazione armata di Israele sarebbe legittimata dal diritto di autodifesa, ma è a un passo anch’essa dall’eccesso nella reazione se si valutano i termini della necessità e della proporzionalità dell’uso della forza letale anche nella self defence, specie ora che viene annunciato da parte israeliana un’offensiva in profondità fino alla striscia di Gaza. La “difesa proattiva” non è un principio che si possa sposare esattamente con il principio di autodifesa. Rispetto a questa situazione, si sente dunque la mancanza di una sollecita determinazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che avrebbe tutti gli strumenti per imporre senza mezzi termini il cessate-il-fuoco ad entrambe le parti, se non addirittura lo schieramento di una forza di interposizione. Se non vi saranno altre anticipazioni il Consiglio di Sicurezza si riunirà domenica, dopo le prime convocazioni sollecitate in particolare da Tunisia, Norvegia e Cina, e poi da Francia, Estonia, Irlanda. La prima riunione, richiesta da Tunisi, ha visto le riserve degli Stati Uniti nell’adozione di una dichiarazione congiunta “in questa fase”. Vedremo se l’Onu e/o gli altri mediatori internazionali, fra cui tengono ad assumere rilievo anche la Russia e la Turchia, riusciranno a trovarsi uniti sulla linea di far cessare l’escalation degli scontri. In queste ore alla comunità internazionale non resta di fatto che rimanere inerme di fronte ai tragici bombardamenti e ai gravi scontri che rischiano di degenerare in una “terza Intifada”: anche questo è il risultato dell’arretramento della governance sulla sicurezza globale del sistema delle Nazioni Unite, ma anche dei limiti degli Accordi di Abramo che pure erano stati salutati come una svolta epocale per la stabilità dell’area.
Negli interrogativi che vengono posti sulle ragioni di fondo di questa nuova esasperazione del conflitto rimangono tuttavia ancora altri aspetti da approfondire, almeno sotto due profili: uno di carattere interno e l’altro ancora sul piano internazionale.

Benjamin Netanyahu.
Sotto il profilo delle situazioni interne alle parti in causa, alcuni osservatori hanno sottolineato la presenza di malcelati interessi dei rispettivi referenti governativi a tenere viva la tensione per ricompattare il consenso in vista di elezioni e ridefinizioni degli assetti di governo. Israele sta vivendo una grave crisi politica che negli ultimi due anni ha visto quattro tornate elettorali. Dopo le elezioni del 23 marzo il premier Netanyahu, esponente del movimento politico “di destra” Likud, in carica dal 2009, ha trovato difficoltà nel cercare una coalizione che sostenesse un nuovo governo. Ora il mandato esplorativo è affidato al leader dell’area “di centro” Yair Lapid, che sembra orientato a cercare consensi sia tra esponenti della destra allontanatisi dal Likud, sia tra i laburisti e il partito d’ispirazione marxista Meretz. Lapid ha cercato anche l’appoggio esterno dei deputati arabi israeliani, ma i negoziati sono stati interrotti e non è escluso che si debba tornare al voto. La nuova campagna militare viene vista quindi come una condizione necessitante che farebbe riacquistare forza al consenso attorno alla figura di Netanyahu. Alcuni osservatori più critici sottolineano anche una esigenza del premier israeliano di alimentare il settarismo per questioni giudiziarie legate a procedimenti per corruzione, su potrebbe avvalersi dell’immunità se rimanesse in carica.
Sul fronte dell’Autorità Palestinese la leadersheap del presidente Mahmoud Abbas, conosciuto anche come Abu Mazen, non è tanto più solida. Esponente del partito di al-Fatah, Abbas è in carica dal 2005, e benché sia riconosciuto a livello internazionale da sempre è posto in discussione dal movimento estremista Hamas, che in particolare governa a Gaza. Anche Abbas è coinvolto in procedimenti per sottrazione di fondi pubblici, e viene inoltre additato di “collaborazionismo” con Israele. Queste ultime accuse si sono acuite il 29 aprile con l’annunciato rinvio a data da destinarsi delle elezioni generali palestinesi, che si sarebbero dovute tenere dal 22 maggio dopo oltre 15 anni, alle quali si erano già registrati oltre il 90% dei palestinesi. Il presidente aveva giustificato il rinvio riferendo in pubblico che “gli israeliani ci hanno detto che non abbiamo il permesso di votare nel distretto di Gerusalemme Est”. Secondo molti osservatori, in realtà, al-Fatah e lo stesso leader temevano per la loro riconferma nelle imminenti tre storiche tornate elettorali che avrebbero dovuto eleggere il Parlamento palestinese, il presidente dell’Autorità palestinese e il Parlamento dell’Olp. Israele non ha dato conferme ufficiali di tale posizione, ma d’altro canto non ha fornito indicazioni sulla disponibilità dei seggi, circostanza che è stata ritenuta “pilatesca”, anche perché l ’Unione europea e altri Paesi occidentali avevano più volte richiesto a Israele di non impedire le operazioni di voto palestinesi, anche proponendo un voto online. Sta di fatto che la posizione assunta da Abbas con il rinvio delle elezioni ha scontentato anche le altre fazioni minoritarie che speravano di consolidare la rappresentanza parlamentare, fra queste anche diversi gruppi di ex appartenenti di al-Fatah che avrebbero potuto comunque sostenere il partito di Netanyahu in una maggioranza governativa, come il movimento Mustaqbal (Futuro) e il gruppo Hurriyah (Libertà).

Ma soprattutto non si sono fatte attendere le proteste di Hamas, guidata da Ismail Haniyeh, che hanno scatenato la prima serie di aspre manifestazioni anche sulla Spianata delle Moschee di Gerusalemme. Nel complesso scenario palestinese, è tuttavia l’ambiguità delle parti un’altra chiave di lettura. Secondo alcuni la reazione di Hamas sarebbe strumentale e artificiosa perché anch’essa temeva per il suo futuro elettorale. Le consultazioni avrebbero visto 36 partiti in competizione, con 1.400 candidati, tra cui 405 donne e il 39 per cento con meno di quarant’anni, in lizza per 132 seggi. È molto probabile dunque che ci sarebbero state sorprese tanto per al-Fatah quanto per Hamas, con cambiamenti che avrebbero potuto portare a nuove coalizioni e conseguentemente anche agli assetti dei gruppi di potere che hanno consolidato le principali rendite economiche dei partiti governativi.

Contemporaneamente alla questione del rinvio delle elezioni è poi esplosa l’altra causa scatenante il clima di tensione sfociato nella escalation in atto. La Corte Suprema israeliana ha all’esame il controverso procedimento promosso dagli israeliani che vorrebbero portare allo sgombero di immobili occupati da alcune famiglie palestinesi residenti nel quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est. La decisione sul provvedimento esecutivo è stata rinviata e ciò ha scatenato i primi scontri degli israeliani contro i palestinesi. Questi hanno indetto la manifestazione sulla porta di Damasco repressa con fermezza dalle forze di sicurezza israeliana, inducendo come si è detto Hamas alla reazione con i primi lanci di razzi. La questione non è una normale controversia civilistica, perché in ballo c’è la particolare connotazione storica di Gerusalemme Est, considerato come territorio occupato dalla risoluzione 242 delle Nazioni Unite ma annessa da Israele dopo la guerra del 1967. Nell’area abitano circa 250mila palestinesi, che in particolare rivendicano una precisa identità arabo-palestinese del quartiere storico di Sheikh Jarrah, vicino alla Città Vecchia. Ma la questione è molto controversa: se la parte ebraica sostiene che i terreni e le case vennero perduti durante l’aggressione giordana a Israele del 1948, le famiglie palestinesi rivendicano i loro diritti per avere ricevuto legittimamente, con un avvallo dell’ONU, le case dalle autorità giordane che all’epoca controllavano Gerusalemme Est. A parte le rivendicazioni ricche di riferimenti storici di entrambe le parti che affondano ai tempi delle crociate, sotto il profilo giuridico le criticità sono molto serie per le decisioni assunte durante la guerra del 1948 che portò alla formazione dello Stato di Israele. Il quartiere di Sheikh Jarrah fu evacuato a causa dei combattimenti e alla fine della guerra passò sotto il controllo della Giordania, come tutta la parte est di Gerusalemme, abitata prevalentemente da arabi. Nel 1956 il governo giordano trasferì nei pressi della Tomba di Simeone in terreni che prima appartenevano alla comunità ebraica, 28 famiglie di profughi palestinesi che furono sistemati in un complesso costruito con l’assenso dell’ONU. Il governo giordano garantì anche in un accordo una sorta di usucapione per cui negli anni i palestinesi avrebbero potuto acquisire la piena proprietà dei terreni e delle case costruite. Nella guerra dei Sei Giorni del 1967 Israele riconquistò Gerusalemme Est e nel 1970 varò la legge che sancì “il diritto al ritorno” nelle loro case dei profughi ebrei allontanati con la guerra del 1948. La questione si è inasprita quando negli anni ‘90 l’organizzazione di ispirazione radicale di coloni israeliani “Nahalat Shimon” ha acquisito la proprietà nominale dei terreni intorno alla Tomba di Simeone. L’organizzazione israeliana ha quindi promosso l’azione giudiziaria di sfratto annunciando il proposito di demolire le case dei palestinesi per costruire appartamenti da destinare a circa 200 coloni. La Corte israeliana aveva lasciato spazio alle parti per un eventuale accordo extra-giudiziale, che avrebbe potuto prevedere ad esempio alcune facoltà di godimento degli immobili alle poche famiglie palestinesi, in cambio del riconoscimento della proprietà dei terreni a Nahalat Shimon. Ma l’ipotesi di compromesso non ha avuto alcun seguito.
Nella realtà, secondo gli analisti la questione di fondo è legata alle pretese dell’area radicale di Israele sul quartiere di Sheikh Jarrah per mantenere il controllo su quell’area di Gerusalemme Est che potrebbe essere la parte più interessata alla cessione alla parte araba in un ipotetico futuro Stato palestinese, ovvero in una nuova Gerusalemme a status speciale.
È perciò evidente che su questi aspetti occorra una negoziazione politica sostenuta dalla comunità internazionale, perché vi sarebbero serie difficoltà per giungere ad una decisione meramente giuridica, anche se la questione fosse deferita alla Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite: se fosse riconosciuto in assoluto il principio di un “diritto al ritorno”, sarebbe difficile non ammetterlo anche per le comunità di etnia araba che prima della guerra del 1948 avevano la proprietà di circa il 30 per cento delle case di Gerusalemme Ovest, la parte che l’ONU riconosce di diritto a Israele.

Sul più ampio profilo internazionale delle implicazioni che hanno inciso sulla escalation del conflitto in altro, è evidente l’assenza di una presa di posizione netta di quei paesi arabi che notoriamente hanno rapporti privilegiati con Hamas e le altre componenti oltranziste palestinesi. È il caso principalmente dell’Iran, dell’Egitto e della Siria, che sostengono economicamente e con armamenti Hamas, e che potrebbero aver guardato con sospetto la nuova area geopolitica di influenza costruita sulla base degli Accordi di Abramo sottoscritti sotto l’egida degli Stati Uniti tra Israele dapprima con gli Emirati Arabi e poi anche con il Bahrein.
Ma una valutazione complessiva delle prime reazioni ufficiali della comunità internazionale, per come sono state riportate dai principali organi di informazione, fa intravedere il complesso scenario degli schieramenti più netti e di quelli meno chiari. L’Arabia Saudita ha condannato i “palesi attacchi delle forze di occupazione israeliane alla santità della moschea di al-Aqsa”, mentre l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC) ha condannato “con la massima fermezza i ripetuti attacchi delle autorità di occupazione israeliane contro il popolo palestinese”. Secondo le agenzie russe, il presidente Vladimir Putin avrebbe chiesto la “riduzione dell’escalation” in una conversazione con il presidente turco Recep Tayyp Erdogan ed entrambi avrebbero “espresso la loro profonda preoccupazione per i continui combattimenti, per l’aumento del numero di morti e feriti”. Altre fonti parlano di una posizione più critica di Erdogan che avrebbe sottolineato la necessità che la comunità internazionale “impartisse a Israele una lezione ferma e dissuasiva”. Il segretario di Stato francese agli Affari esteri Clément Beaune ha invitato gli Stati Uniti ad esercitare le principali leve diplomatiche che detengono nell’area, richiamando comunque l’esigenza di un’ Europa più presente. Il portavoce del governo tedesco Steffen Seibert ha affermato il “diritto” di Israele di difendersi dagli attacchi di Hamas che hanno lo scopo di “uccidere persone indiscriminatamente e arbitrariamente”. Il premier britannico Boris Johnson ha esortato israeliani e palestinesi a fare un passo indietro dal baratro da entrambe le parti sollecitando “un’urgente de-escalation”. Secondo le fonti di agenzia, la Casa Bianca ha condannato gli attacchi di Hamas contro Israele sottolineando che il presidente Joe Biden ha chiesto ai suoi funzionari di inviare sia a israeliani che a palestinesi “un chiaro messaggio teso a far rientrare l’escalation». Il portavoce di Biden Jen Psaki ha precisato: «Il sostegno del presidente alla sicurezza di Israele e il suo legittimo diritto a difendersi e difendere il proprio popolo è fondamentale e non verrà mai meno». Un messaggio che sarebbe stato ribadito in una telefonata dal consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan al consigliere israeliano Meir Ben Shabbat insieme all’«esortazione ad intraprendere passi verso la restaurazione di una calma sostenibile”. Sullivan si sarebbe rivolto in tal senso anche con esponenti del governo egiziano. Secondo alcuni osservatori, sulla line del presidente Biden inciderebbero le due anime del partito democratico: quella moderata, filo-israeliana, e quella “liberal-socialista”, filo-palestinese.
L’Italia, già presa in questi giorni in un’azione diplomatica volta a vincere la riluttanza dell’Ue ad affrontare un impegno comune sulla urgente questione migratoria, si sta muovendo con cautela pur avendo visto molti suoi esponenti politici di varie componenti schierarsi a fianco della comunità ebraica in una manifestazione spontanea pro Israele. Ciò ha consentito di presentarsi in una posizione neutrale che ha indotto la rappresentante diplomatica palestinese Abeer Odeh a chiedere all’Italia di farsi promotrice di una conferenza di pace. Ma probabilmente stavolta è la posizione dell’Unione Europea espressa per voce dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza Josep Borrell ad essere stata la più convinta e meglio argomentata, la più netta e soprattutto la più tempestiva. Borrell ha chiesto la fine immediata della violenza in Israele nei territori palestinesi per “evitare un conflitto più ampio”. Ed ha anche precisato che “Il lancio indiscriminato di razzi da parte di Hamas e di altri gruppi contro i civili israeliani è inaccettabile. Pur riconoscendo la legittima necessità di Israele di proteggere la sua popolazione civile, la risposta deve essere proporzionata ed essere soggetta alla massima moderazione nell’uso della forza”. Insomma, finalmente una visione politica e giuridica chiara e ben definita, su cui però sarebbe auspicabile che la comunità internazionale trovi una rinnovata coesione e si muova con azioni concrete.

* Membro dell’International Law Association, dell’Associazione Italiana Giuristi Europei e dell’Associazione Italina di Sociologia.