Il muro di Trump, tra slogan e realtà

di Dario Rivolta *

Donald Trump ha un passato di imprenditore e il suo approccio alla politica non può prescindere dal suo modo di porsi in modo negoziale con i suoi interlocutori. In questa luce bisogna mettersi per capire molte delle sue prese di posizione in politica internazionale. Non è affatto detto che le sue affermazioni, a volte scioccanti, vadano prese alla lettera. Al contrario, come ogni buon negoziatore, lancia dei ballon d’essai e si mostra duro e determinato per partire da una posizione di vantaggio e poi trovare un compromesso favorevole.
Probabilmente, questa tecnica vale, ma solo in parte, per quanto riguarda la questione del “muro” col Messico. Essa, lungi dall’essere una boutade elettoralistica o una nota di colore, riveste particolare importanza sia per gli Stati Uniti, sia per il suo vicino. Nei commenti della stampa internazionale è poco sottolineato il fatto che i cittadini statunitensi di origine messicana sono quasi trentasei milioni e cioè circa l’11% dell’intera popolazione. Questa cifra riguarda soltanto chi ha già acquisito la cittadinanza e non comprende quindi gli immigrati regolarizzati e i circa (stimati) 11 milioni di clandestini. La stragrande maggioranza vive negli stati del sud, particolarmente in California, Arizona, New Mexico e Texas e molti di loro rinunciano a imparare la lingua inglese, limitandosi a vivere all’interno della comunità dei “latinos” e continuare a parlare spagnolo. Se consideriamo tutti i messicani, ben il 24% di loro vive stabilmente negli Stati Uniti. Nel 2015 157mila migranti sono stati regolarizzati e un altro milione e 300mila ha domandato ufficialmente il permesso d’immigrazione. Poiché il loro tasso medio di natalità è molto più alto di quello dei cittadini statunitensi d’origine europea, non si può escludere, così come aveva profetizzato preoccupato il noto politologo Samuel Huntington, che in un prossimo futuro possano manifestarsi tensioni, anche violente, tra le persone delle due diverse etnie. Ai messicani occorre aggiungere gli altri migranti, per lo più illegali, che arrivano da altri Paesi dell’America centrale. A titolo di esempio basta dire che nel 2016 i minori non accompagnati arrivati irregolarmente negli Stati Uniti sono circa 12mila tra i nati in Messico, 18mila in El Salvador, 19mila in Guatemala e 10.500 in Honduras.
In altre parole, il rischio di una “ispanizzazione” di una parte degli Stati Uniti è reale. Si spiega anche così perché gran parte della popolazione statunitense appoggia le intenzioni di Trump.
La realizzazione del muro, qualunque sarà la forma che tale barriera assumerà, non è tuttavia di semplice realizzazione e ancora meno facile sarà il riuscire a finanziarlo. La lunghezza da coprire sarà di circa 2mila km, salvo che non ci si voglia limitare a interventi di facciata tanto per dire che qualcosa si è fatto, e il terreno su cui la barriera dovrebbe sorgere presenta una grande varietà di clima, vegetazione, altitudine e tipo di suolo. In secondo luogo, la maggior parte dei territori su cui costruire appartiene a privati cittadini e sarebbe quindi necessario provvedere a espropri con relativi indennizzi e possibili cause legali da parte dei proprietari. Un terzo ostacolo sarà il costo, già stimato tra i 12 e 15 miliardi di dollari. Infine, come si vede nei mille km già esistenti tra San Diego e poco oltre El Paso, una barriera lasciata senza adeguata sorveglianza non basta. Come ebbe a dire la segretaria per la Sicurezza Nazionale Janette Napolitano, “mostratemi una parete alta cinquanta piedi ed io vi mostrerò una scala alta cinquantuno”. Diventerebbe quindi necessario potenziare permanentemente il numero delle guardie di frontiera che andrebbero inoltre impiegate 24 ore su 24 e perfino ciò potrebbe non essere sufficiente. Basta sentire cosa disse un immigrato illegale catturato dalla polizia, “Non ha importanza quante barriere essi possano erigere, loro non ci fermeranno”. Frase, questa, che dovrebbe preoccupare anche noi alle prese con gli arrivi sulle nostre coste.
Trump ha ripetuto più volte che il costo della costruzione di questo “muro” dovrà essere sostenuto dal Messico, ma ne ha ricevuto un netto rifiuto. Il presidente messicano Enrique Pena Nieto ha disdetto platealmente e per protesta un incontro a Washington, già fissato per il 31 gennaio. La richiesta di Trump però non è peregrina perché tutti sanno che il governo messicano non solo non ostacola ma addirittura favorisce l’immigrazione verso gli Stati Uniti. Non per nulla: le rimesse degli emigrati sono una voce importante nel bilancio dello Stato. Quanto l’emigrazione, legale o meno, sia almeno tollerata lo potei io stesso costatare di persona pochi anni fa. Ero a Nogales, città divisa in due dal confine tra Messico e Stati Uniti, e in prossimità della stazione nella parte messicana vidi decine di persone con pullman e fuoristrada che offrivano spudoratamente la possibilità di accompagnare oltre confine chi vi arrivava. Naturalmente si trattava di “passaggi” per vie non ufficiali. Nessuna forza dell’ordine ostacolava questi commerci e tutto si svolgeva alla luce del sole. Nonostante Nogales si trovasse in una di quelle zone ove il “muro” (in quel caso una rete metallica molto alta) già esisteva, gli “sconfinamenti” erano quotidiani e la polizia americana riusciva, successivamente, a intercettarli solo in parte.
I problemi con Città del Messico riguardano contemporaneamente il fenomeno dell’immigrazione e il trattato commerciale NAFTA tra Canada, Stati Uniti e Messico. Nel 2018 si terranno le elezioni per la presidenza messicana e Pena Nieto, già in calo di popolarità per un’economia che non sta andando ai massimi e reduce da settimane di proteste per aver deciso l’aumento dei prezzi dei carburanti, sa bene che i messicani considerano il muro un insulto alla loro dignità e non gli perdonerebbero un qualche cedimento. Nello stesso tempo, anche un venir meno dell’accordo commerciale con gli Usa per il Messico sarebbe una disgrazia. Gli Stati Uniti rappresentano circa 80% dell’export messicano e valgono circa sessanta miliardi di dollari. Per la bilancia commerciale americana queste importazioni sono il 12% dell’intero deficit commerciale e la sua perequazione rientra nei programmi annunciati dal neo-presidente. Non per caso, dalla data in cui Trump ha vinto le elezioni, il pesos messicano si è svalutato di più del 14%. Se veramente Trump dovesse imporre un’imposta doganale del 20%, questo significherebbe per le casse americane un’entrata extra di circa 10 miliardi di dollari e per le imprese localizzate in Messico un brutto colpo che diventerebbe un incentivo a futuri licenziamenti del personale.

Il presidente del Messico Enrique Pena Nieto.

Anche la mossa sui dazi però non sarà senza difficoltà poiché un presidente americano può aumentarli verso un altro Paese, attraverso un decreto urgente, solo fino al massimo del 15% e per una durata di soli cento giorni. Per un aumento più alto e una durata più lunga si renderebbe necessaria una generale riforma del codice fiscale Usa che può essere avviata soltanto dal Congresso. Non è automatico che i deputati, molti dei quali eletti negli Stati di confine e con molti immigrati già elettori, vi acconsentano.
Non è quindi escluso che NAFTA e immigrazione diventino entrambi oggetto della stessa negoziazione che prima o poi comincerà tra le due parti. In questo caso Trump sarà politicamente il più forte ma occorre considerare che Pena Nieto ha le mani legate: se acconsente alla chiusura della frontiera, si attirerà l’ira popolare e dovrà anche fare i conti con i costi delle decine di migliaia di migranti del centro America che in Messico intendevano solo transitare per andare più a nord; se acconsentirà invece a un cedimento sugli accordi di libero scambio, l’economia messicana potrebbe subire un irrimediabile tracollo.
Molto probabilmente si arriverà a qualche compromesso, ma in che cosa esso consisterà è storia ancora tutta da scrivere.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.