Il perché della presenza russa in Siria

di Dario Rivolta * –

Quando nel 2014 la Russia annunciò la sua decisione di intervenire in Siria in aiuto ad al-Assad, ci si domandò quali fossero i motivi veri di quella decisione. Ufficialmente si trattava di difendere un alleato contro il tentativo di colpo di stato favorito da Turchia e Arabia Saudita che approfittavano di un forte malcontento popolare in alcune città a prevalenza islamico-sunnita. Anche il pericolo di una diffusione dell’islamismo nei paesi del Caucaso russo grazie ai visibili successi dallo Stato Islamico fu una possibile ragione. Alcuni analisti lessero quell’intervento come un avvertimento agli Usa e alla loro politica in Ucraina. Si trattava in questo caso di dimostrare che Mosca era anche pronta a fare qualcosa di più di ciò che già stava facendo se gli americani avessero passata una certa soglia. Altri ancora lo spiegarono come un’operazione mirante soprattutto a distrarre l’opinione pubblica interna dallo stallo in Donbass e dai problemi dell’economia nostrana. Più semplicemente un’altra lettura si limitava a ricordare la presenza di basi russe, una navale e una aerea, nel nord ovest della Siria che sarebbero potute essere messe a rischio dalla possibile caduta del regime alawita.
In realtà quelle motivazioni avevano tutte un fondamento più o meno importante e probabilmente è stato il loro insieme a far decidere Putin. Comunque sia stato, fu proprio l’intervento russo a cambiare le sorti del conflitto. Senza l’aiuto dell’aviazione di Mosca e senza la fornitura di nuove armi e l’utilizzo dei suoi “consiglieri”, la sorte di Assad sarebbe stata ben altra.
Attualmente lo Stato Islamico è geograficamente sconfitto e i vari gruppi guerriglieri sono stati annientati o neutralizzati, ma la partita per Mosca e per i suoi alleati non è finita. Al contrario, ora comincia la parte più complicata.
Turchia, Iran e Russia hanno combattuto in Siria stando dalla stessa parte (la Turchia soltanto da un certo momento in poi) ma i loro interessi strategici erano e restano alternativi l’uno all’altro e all’altro.
L’Iran ha sempre visto la Siria come strumento per rafforzare il controllo sull’Iraq e come un passaggio obbligato verso il Mediterraneo ove, grazie a Hezbollah, aveva condizionato la politica libanese. L’egemonia iraniana dal Golfo Persico al Mediterraneo orientale, se confermata, farebbe di quel Paese il più potente di tutto il Medio Oriente, con gran tormento dei sauditi animati dalla stessa ambizione, di Israele che vedeva le truppe e le facilities iraniane a ridosso dei propri confini e perfino della stessa Turchia che cerca da tempo di competere con i sauditi quale Paese guida dell’Islam sunnita. Per Teheran la permanenza al potere di un al-Assad debitore nei suoi confronti significherebbe la garanzia di poter continuare a esercitare un controllo indiretto, magari oggi rinforzato dalla presenza di milizie armate sciite obbedienti.
Ankara non vorrebbe che al-Assad, di certo non amico, possa rimanere al potere, ma potrebbe essere disponibile ad accettarlo per un certo periodo di tempo, nell’attesa di elezioni o di eventi sui quali intervenire per cambiare la guida del regime. La Turchia è sempre stata in competizione nell’area non solo con i sauditi ma anche con gli iraniani e, mentre i primi sono ormai ridotti ad una posizione marginale in Siria, una forte presenza dei proxi degli ayatollah in quel Paese porrebbe fine ad ogni sogno di un futuro controllo turco sulla zona. Per i turchi anche la presenza di un’area controllata dai curdi viene percepita come un potenziale pericolo a causa dei loro possibili collegamenti con il PKK. I curdi siriani, oggi avvicinatisi al governo di al-Assad proprio per proteggersi dai turchi, non sono invece visti come un problema né dagli iraniani né dai russi, ben contenti di poter contare anche su di loro per “moderare” le ambizioni di Ankara.
Il Paese che deve affrontare più complicazioni nel gestire il dopo conflitto è tuttavia la Russia. Pur avendo stretto un’alleanza in loco sia con Ankara che con Teheran, non può dimenticare che entrambi quei paesi le sono rivali ai propri confini nel Caucaso. Tutti e tre competono per l’Azerbaigian: i turchi lo considerano “naturalmente” vicino essendo etnicamente turcofono e soprattutto perché è l’origine di gas e petrolio di cui si rifornisce e li fa diventare un hub per l’Europa; gli iraniani hanno nei propri confini una grande comunità azera e nei secoli, storicamente avevano controllato quel territorio. Per la Russia si tratta di un’ex repubblica sovietica e avere buoni rapporti con Baku serve sia per impedire l’influenza degli altri due, sia per limitare i danni che il gas azero verso l’Europa può causare alle esportazioni di Gazprom (e più recentemente forse anche di Rosneft). Inoltre la Russia non desidera che né la Turchia né l’Iran possano diventare troppo potenti nella zona. Non bisogna dimenticare che la prima è ancora membro della NATO (nonostante negli ultimi tempi abbia manifestato in più occasioni la propria volontà di emanciparsi parzialmente) e la seconda potrebbe mettere a rischio la stabilità nell’area avvicinandosi troppo ai confini israeliani. Un possibile conflitto con Israele, anche se limitato, implicherebbe un ritorno in forze degli Stati Uniti che non potrebbero permettersi di “abbandonare” Israele al proprio destino.
Che Mosca stia cercando di ridimensionare l’influenza iraniana sulla Siria è evidente da due fatti: durante gli attacchi aerei ordinati da Tel Aviv contro postazioni di Hezbollah e sedi logistiche iraniane in Siria i russi erano stati preventivamente informati, ma né hanno consentito l’uso dei missili S300 concessi in dotazione all’esercito siriano che avrebbero potuto neutralizzare gli attacchi, né hanno passato l’informazione ai servizi di Teheran. L’altro fatto, pur non ufficialmente confermato dai russi, si deduce da una dichiarazione del primo ministro israeliano Netanyahu che, dopo aver incontrato Putin a Mosca, ha affermato che “ci sarebbe stato un continuo coordinamento tra i due eserciti (russo e israeliano, ndr.)”. Più tardi ha perfino precisato di aver avuto “garanzie” che finito il conflitto non sarebbero più rimaste in Siria truppe o milizie “straniere”. L’allusione era evidentemente riferita a Hezbollah e ad altre milizie filo-iraniane.
A conferma della volontà russa di non favorire Teheran nella zona e di perseguire buoni rapporti con Israele, basta osservare che gli interventi bellici russi in Siria si sono sempre limitati alle aree a nord del Paese, mentre hanno lasciato alle sole forze siriane il compito di combattere nella parte sud.
È comprensibile che Putin non voglia abbandonare apertamente l’alleato iraniano, ma le malelingue sussurrano che non sia nemmeno tanto dispiaciuto dalle sanzioni americane verso quel Paese. Che queste stiano avendo effetti anche sulle ambizioni degli ayatollah verso il Medio Oriente è confermato dal fatto che i militanti delle milizie filo-iraniane combattenti in Siria (ivi compreso Hezbollah) da qualche tempo non vengano pagati e che anche le loro famiglie abbiano visto diminuire i soldi loro elargiti da Teheran.
Per finire e come ulteriore conferma, quando Mosca si è sentita in dovere di protestare contro la decisione di Trump di riconoscere la sovranità di Tel Aviv sulle alture del Golan, un analista militare russo tra le altre motivazioni ha dichiarato che ciò costituiva “una maggiore difficoltà per Mosca di mediare tra Iran e Israele”.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali..