Il ruolo geopolitico della storia nella Cina di Xi Jinping

Marco Testolin

“La storia della Cina si svolge tutta nella tensione tra unità e molteplicità. A un’infinita diversità di forme di vita, alle divergenze tra visioni del mondo inconciliabili e all’aspro contrasto tra ricchezza e miseria, si sente continuamente contrapporre l’orgogliosa affermazione “Noi siamo una cosa sola. Una sola è la nostra tradizione, la nostra cultura, la nostra storia”.
Queste parole, tratte dal libro “Cina. Una storia millenaria” di Kai Vogelsang, riassumono efficacemente il tema più interessante quando ci si approccia alla storia cinese: i millenari sforzi dell’establishment per ricondurre a una singola logica la moltitudine di esperienze culturali nate e sviluppate nella terra retta dal Tiānmìng, il mandato del cielo. Cercare di spiegare più di cinque millenni di storie, etnie, culture, religioni che si svilupparono nell’immenso territorio che oggi compone la Repubblica Popolare riassumendolo in un elenco di dinastie presentate come in continuità l’una con l’altra è sempre stata la priorità della storiografia ufficiale cinese, desiderosa di presentare il passato come magister vitae per la propria società, piuttosto che riportare fedelmente gli avvenimenti. Così l’ormai iconico siparietto tra Xi Jinping e Trump, in cui il primo sosteneva fermamente l’unicità della continuità della cultura cinese nei millenni, può considerarsi storicamente impreciso, ma geopoliticamente di grande impatto.
Il desiderio del presidente cinese di ricollegarsi al lunghissimo passato imperiale – a differenza della sfrenata iconoclastia maoista – rende oggi la comprensione della complessa storia cinese una chiave di lettura imprescindibile per comprendere le scelte politiche attuali della dirigenza del PCC. Due in particolare sono i periodi della storia cinese che negli ultimi anni dominano la chronopolitics del presidente Xi, e ai quali il libro dedica ampio spazio: quello dei primi insediamenti tardo-neolitici (culture di Yanghshao, Longshang ed Erlitou) e delle prime dinastie degli Shang e degli Zhou, e il celeberrimo “secolo delle umiliazioni”, spaziante dalla prima guerra dell’oppio del 1839-42 alla nascita della Repubblica Popolare del 1949.
La riscoperta dei primi popoli civilizzati ad abitare l’heartland cinese ha nell’ultimo decennio spinto la leadership cinese a finanziare immensi progetti archeologici per legare tali scoperte ad una narrazione di originalità e continuità nei millenni della propria cultura, anche nei paesi limitrofi che oggi fanno parte della Belt and Road Initiative. Lo sviluppo di un’ “archeologia dalle caratteristiche cinesi”, invocata con forza dal presidente Xi Jinping, ha una funzione prettamente geopolitica: dare sostanza scientifica alle origini della cultura cinese – per quanto rimanga ancora vivo e codificato il culto del mitico “Imperatore Giallo” – e presentare la storia dell’Eurasia all’insegna della fratellanza tra popoli (a marcata guida cinese). É utile oggi, quando il presidente Xi presenta Zhang Quian e Zheng He come grandi ambasciatori commerciali e culturali della storia patria, conoscere la verità storica su di essi per cogliere la strumentalizzazione geopolitica delle loro figure: il primo finì per dieci anni nelle prigioni degli Xiongnu, senza per altro ottenere alcun accordo con i popoli della steppa; il secondo, nonostante disponesse della più grande ed avanzata flotta del suo tempo e fosse riuscito a raggiungere anche le coste dell’Africa, vide la sua marina smantellata e tutte le attività commerciali marittime bollate dagli imperatori Ming come volgare “pirateria”.
Tanti sono gli spunti della storia cinese riletti e reinterpretati alla luce delle sfide odierne della Repubblica Popolare: la riscoperta dei valori tradizionali confuciani, le lezioni militari delle grandi campagne di conquista dei Qing, la “cinesizzazione” delle religioni non autoctone, come il buddismo, culminata con la dinastia Tang. Lo studio degli errori, politici e militari, del tardo impero Qing culminati nell’occupazione occidentale e giapponese di gran parte del territorio dell’agonizzante tardo impero, su tutti, impegna accademici e membri del Partito come nessun altro periodo storico, ed è alla base della svolta più aggressiva e nazionalista data da Xi Jinping al progetto di “grande rinascita della nazione cinese”.
La corruzione nelle alte stanze del potere, l’arretratezza tecnologica della marina, l’ostentata superiorità morale occidentale sono fattori che, oggi come durante il “secolo delle umiliazioni”, si ripresentano nei dossier sul tavolo del segretario generale del PCC. Deciso più che mai a riscattare i fallimenti dei suoi predecessori, usando il lungo e glorioso passato cinese come potente arma geopolitica di proiezione di potenza verso l’esterno, e di compattamento di un fronte interno attraversato da linee di frattura che da millenni si ripresentano come enormi grattacapi per la tenuta e stabilità del potere centrale.