di Eugenio Lanza –
Una bomba che uccide e distrugge. L’ennesima. Oltre 50mila morti (secondo le stime più caute), almeno 110mila feriti, e circa 11mila dispersi non hanno ancora saziato la brama di sangue dello Stato israeliano. Questa volta, il 21 marzo 2025, il premier Benjamin Netanyahu, oggetto di un mandato d’arresto internazionale, ha messo nel mirino un ospedale oncologico, l’unico rimasto attivo nella Striscia, per distruggere le speranze di chi lotta con l’inferno del cancro oltre che con le fiamme degli ordigni. Non è certo la prima volta che Tel Aviv rade al suolo un nosocomio palestinese, tipologia di target preferito da parte dell’IDF insieme alle scuole, ma questa volta al dramma umanitario si assomma il valore simbolico di un simile gesto. Spazzare via la sola struttura capace di combattere la quarta causa di morte su scala globale significa voler lasciare la popolazione di Gaza isolata non solo rispetto al resto del mondo, ma anche rispetto alle crudeltà e alle sofferenze inflitte dalla natura. Significa voler portare indietro di secoli le persone sopravvissute a mesi di stragi indiscriminate, lasciandole in balia di un ulteriore nemico invisibile e vigliacco. Soprattutto, significa stringere un’alleanza mefistofelica con le neoplasie, col fine di conquistare quelle terre avendo tra i piedi il minor numero possibile di loro abitanti. Insomma, un passo importante verso l’attuazione del genocidio. Poiché di questo si tratta.
Perché ancora tanto vile pudore, da parte delle nostre istituzioni e del circo mediatico, a definire le cose col loro nome? Potrebbe sembrare un sofismo linguistico, ma è con le parole che si crea una coscienza condivisa, ed è allora dalla semantica che dobbiamo partire per prendere contezza degli orrori che stanno avvenendo in Medio Oriente.
Prendiamo in prestito, per intenderci meglio, le categorie del diritto penale. Tanto, sempre di crimini si tratta, che siano contro la persona o il patrimonio oppure contro l’umanità. Nello studio di una fattispecie rea, è compito del giudice analizzare non solo l’elemento oggettivo (ciò che è successo fisicamente), ma anche quello soggettivo (cioè, in estrema sintesi, le finalità per cui è stato commesso il reato e le condizioni di chi l’ha perpetrato). Nel caso di un omicida, ad esempio, non lo si condannerà solo in base al numero delle vittime, ma anche alle motivazioni e le modalità con cui ha posto fine alla vita di qualcun altro. Ed è per questo che un automobilista distratto riceverà una pena molto inferiore rispetto a un sicario malavitoso, anche nel caso in cui il primo avesse investito tre persone e il secondo ne avesse freddata una sola. Il male non si annida soltanto nei numeri. Riallacciamoci dunque alla storia. Sono avvenute guerre estremamente sanguinose, durante le quali tuttavia non sono state messe in atto operazioni etnocide ma solo battaglie fra eserciti, ed in quei casi è giusto parlare esclusivamente di conflitto armato.
L’eliminazione dei palestinesi è però una questione ben diversa. Così come lo fu la Shoah, il genocidio armeno o quello ruandese. Quelle non erano solo guerre, così come non lo è questa, e non certo per una questione di cifre. Qui siamo di fronte ad uno degli ultimi atti di un’invasione che ha avuto inizio nel 1948 ed è diventata ufficialmente illegale nel 1967; e che adesso, nelle azioni e nei piani dei suoi autori, punta a giungere il più presto possibile alla conquista totale sia della Cisgiordania che di Gaza. Qui con il colonialismo razzista, lì con la pulizia etnica. Il nemico di Tel Aviv non è uno Stato, ma la presenza di ogni singolo arabo che si trova tra Rafah e Beit Hanun. E per disfarsene, la deportazione potrebbe presto divenire uno strumento da affiancare al genocidio, come apertamente dichiarato dal Ministro delle Finanze israeliano Smotrich lo scorso 9 marzo: “Se facciamo uscire 5.000 gazawi al giorno, ci vorrà un anno”.
Ma se le cose stanno così, perché i governi europei, che si strappano le vesti per il battibecco fra Trump e Zelensky e preparano 800 miliardi di Euro per prolungare la guerra russo-ucraina, non fanno nulla per arrestare una tragedia di queste proporzioni? Semplice, perché non ne hanno interesse. Se nel Donbass qualcuno vede ancora l’ultima opportunità per rilanciare le proprie ambizioni imperiali, in Palestina è invece conveniente obbedire allo Zio Sam e non applicare neanche delle banali sanzioni ai terroristi israeliani. Da una parte l’interventismo dei “volenterosi”, dall’altra la prudenza dell’isolazionismo. Da una parte la difesa interessata del diritto internazionale, dall’altra la disinteressata resa alla sua sconfitta. Ma da una parte ci sta la morte, e dall’altra pure. Un giorno la storia ce ne chiederà conto.