Il trumpismo 2.0. Echi della Dottrina Monroe e del corollario Roosevelt

di Emanuele Molisso –

Lo scorso 7 gennaio, dalla sua residenza a Mar-a-Lago in Florida, il neoeletto presidente Donald Trump ha delineato il suo programma di politica estera. Un discorso che ha mostrato l’irruenza e la spettacolarizzazione delle parole a cui il tycoon, ci aveva abituato durante la sua prima presidenza.
Le prime battute hanno visto la dichiarazione di un ritorno all’età dell’oro per gli Stati Uniti d’America. Un ritorno ottenibile con la “conquista” delle regioni al nord e al sud degli Stati Uniti d’America. Ed ecco che arriva la rivendicazione sul Golfo del Messico, il cui nome deve essere ribattezzato con “Golfo d’America” ed ecco che, dal suo account su X, Trump condivide una mappa dell’America del Nord aggiornata, con il Canada avvolto nella bandiera a stelle strisce, diventando a tutti gli effetti “il cinquantunesimo stato americano”. Stessa sorte toccherebbe alla repubblica di Panama e al suo canale.
Rivendicazioni di conquista e minacce di utilizzo della forza avanzate anche oltreoceano. Una novità per la dottrina in politica estera trumpiana dell’America First, la quale strizza l’occhio solamente ai confini più strettamente vicini e a maggior rischio degli Stati Uniti d’America. Ed ecco, quindi, che anche la Groenlandia diventa un obiettivo delle mire espansionistiche del neopresidente, con il pretesto della sfida alla Cina e alla Russia, per il dominio sull’Artico.
Il filo conduttore di queste dichiarazioni si ramifica in due motivazioni fondamentali. La prima è legata all’America First, con Trump che deve cementificare il sentimento patriottico di coloro che lo hanno rieletto e quindi cercare di risollevare l’opinione pubblica statunitense per quanto riguarda la politica estera americana. Non è un segreto che il popolo americano non si sente più così eccezionale e numerosi sondaggi riportano di come serpeggia una sfiducia generale sul ruolo di leader mondiale e dell’ordine internazionale da parte degli Stati Uniti d’America. Il secondo motivo è quello anticipato poc’anzi, ovvero la corsa all’Artico contro Russia ma soprattutto contro Cina. Una sinergia tra Canada e Groenlandia creerebbe un corridoio oceanico strategico, con il quale gli Stati Uniti d’America riuscirebbero a trarre il massimo vantaggio nella corsa alla regione artica; un corridoio da costruire anche attraverso il canale di Panama.
Il discorso di Trump ha riportato alla luce due paradigmi fondamentali della storia delle dottrine della politica estera americana: la Dottrina Monroe del 1823 e il corollario Roosevelt, alla stessa Dottrina Monroe, del 1904.
Ed ecco che, tornano in auge i tre principi della Dottrina Monroe, riassumibili nella volontà di imporre l’egemonia statunitense su tutto il continente americano, senza nessun tipo di tolleranza verso ingerenze estere (all’epoca soltanto europee) ma allo stesso tempo, l’esercizio del ruolo di poliziotto internazionale con cui gli Stati Uniti d’America si incaricano, forti del loro primato emisferico, di essere i garanti dell’ordine e della stabilità della comunità internazionale. Ed ecco, che l’aggiunta di Roosevelt alla dottrina Monroe, torna anche essa, alla ribalta.
Un fil rouge che collega il passato e il presente degli Stati Uniti d’America con l’obiettivo di riaffermare la propria eccezionalità.
Ormai siamo agli sgoccioli e tra esattamente dieci giorni, Donald Trump riprenderà possesso della scrivania nello studio ovale della Casa Bianca. Da lì, in poi, si capirà la direzione e il paradigma che seguirà la sua seconda dottrina in politica estera.