India. Kashmir: non si placano le tensioni con il Pakistan

di Giuseppe Gagliano

Quando un governo invita i suoi cittadini a fare scorta di cibo per due mesi, non è mai un buon segnale. E quando ciò avviene in una delle aree più militarizzate e instabili del mondo, come il Kashmir, significa che la storia rischia di ripetersi. Drammaticamente.
Il 22 aprile un attacco armato contro civili nel sito turistico di Pahalgam, nel Kashmir indiano, ha fatto 24 morti. L’India accusa il Pakistan di complicità. Islamabad nega. Ma la miccia è accesa. Le ritorsioni diplomatiche si moltiplicano, i colpi d’arma da fuoco tornano a echeggiare per otto notti consecutive lungo la Linea di Controllo (LoC), la frontiera che divide in due il cuore conteso dell’Himalaya. E ora il governo del Kashmir pakistano prende provvedimenti da economia di guerra: razionamento, fondi d’emergenza, chiusura delle scuole religiose, dispiegamento di macchinari pubblici e privati per garantire approvvigionamenti.
A Muzaffarabad, la capitale del Kashmir amministrato dal Pakistan, monta la rabbia. Le piazze si riempiono di slogan anti-indiani. Si invoca la Jihad. Il linguaggio della politica lascia spazio a quello della vendetta. La diplomazia si eclissa.
A New Delhi intanto Narendra Modi risponde con fermezza: all’esercito viene concessa “piena libertà operativa”. Islamabad, da parte sua, afferma di avere “prove credibili” di un attacco imminente da parte indiana. Lo spettro del confronto militare torna a incombere su due potenze nucleari.
Eppure, non è solo una crisi episodica. È la prosecuzione di una frattura storica mai sanata. Il Kashmir è una ferita aperta dal 1947, alimentata da guerre, terrorismo, repressione, nazionalismi incrociati. L’India ha revocato lo status speciale del territorio nel 2019, ridisegnandone la mappa istituzionale e aprendo la strada alla colonizzazione demografica. Il Pakistan non ha mai riconosciuto quella mossa, giudicandola una provocazione strutturale.
Secondo il Global Terrorism Index 2025, gli attacchi contro i civili si sono ridotti dell’80% rispetto al 2001. Ma i numeri, pur importanti, non raccontano tutto. La tensione resta alta, il sospetto reciproco costante, la memoria delle vittime troppo recente. Attacchi sporadici, come quello dell’aprile 2025, riaccendono istinti primari, rendono fragile ogni tregua e infiammabile ogni confine.
Nel frattempo il prezzo lo pagano i civili. Chi vive lungo la LoC sa che basta una notte, una raffica, una dichiarazione incendiaria per perdere casa, futuro, famiglia. La chiusura delle oltre mille scuole religiose nel Kashmir pakistano è solo l’ultimo segnale di un’escalation che torna a minacciare una delle regioni più pericolose del pianeta.
Il Kashmir non è solo una questione bilaterale. È il laboratorio fallito della comunità internazionale, che da decenni osserva e condanna senza mai intervenire davvero. È lo specchio deformato del mondo che invoca il diritto internazionale, ma tollera l’eccezione permanente. È, infine, il campo di battaglia ideale per chi vuole regolare i conti con l’identità, il potere e la storia.