Iran. A Roma stallo nucleare con gli Stati Uniti

di Giuseppe Gagliano

Si è chiuso senza un accordo il quinto round di negoziati sul nucleare iraniano, svoltosi a Roma sotto la mediazione dell’Oman. Ma il vero dato politico non è l’assenza di un’intesa, bensì la cristallizzazione di una contrapposizione strategica che rispecchia la nuova geografia del potere globale. Stati Uniti e Iran hanno lasciato il tavolo senza rotture, ma anche senza concessioni. A dominare è la logica dell’intransigenza, in una cornice diplomatica che si finge neutrale ma resta fortemente segnata da pressioni regionali, interessi incrociati e calcoli militari.
Il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi, ha usato toni concilianti, parlando di un incontro “professionale” e lasciando aperta la porta a futuri sviluppi. Ma nelle parole dei funzionari iraniani, dietro la cortesia formale, traspare il disincanto. Due fonti anonime di Teheran hanno confermato alla CNN che non vi è alcuna reale aspettativa di successo: la richiesta statunitense di uno “zero arricchimento” è considerata una provocazione mascherata da condizione. La Repubblica Islamica, firmataria del Trattato di non proliferazione nucleare (TNP), non intende accettare ciò che percepisce come un trattamento discriminatorio, specie mentre Israele continua a rifiutare ogni trasparenza sul proprio arsenale nucleare.
Gli Stati Uniti dal canto loro ribadiscono la linea rossa: impedire a Teheran qualsiasi capacità autonoma di arricchimento dell’uranio. Una posizione che ricorda sinistramente la strategia adottata nel 2003 con la Libia, quando fu imposto a Gheddafi lo smantellamento totale del proprio programma di armamento in cambio di promesse occidentali poi non mantenute. Proprio a questo modello si è riferito Benjamin Netanyahu, durante i colloqui collaterali tra il suo emissario Ron Dermer e l’inviato speciale USA Steve Witkoff a Roma.
Ma il paradosso strategico è evidente: gli stessi Paesi che rifiutano a Teheran il diritto alla tecnologia nucleare civile (che già hanno con la centrale nucleare di Busher) promuovono in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti modelli di sviluppo atomico sorretti da importazioni e joint venture. È in questo scenario che emerge l’ipotesi, ritenuta da alcuni mediatori “accettabile”, di un consorzio nucleare civile Iran-Golfo, una soluzione che dovrebbe servire a contenere la crisi ma che rischia invece di moltiplicare le ambiguità.
Dietro le quinte Israele non smette di minacciare azioni militari contro le installazioni nucleari iraniane, mentre a Washington resiste l’illusione che un Iran isolato e indebolito possa essere più incline al compromesso. Un errore strategico, secondo Ali Vaez, esperto dell’International Crisis Group, per il quale “più debole è l’Iran, meno disponibile sarà a cedere”.
A complicare ulteriormente il quadro, le implicazioni di un’eventuale rottura: l’Iran potrebbe uscire dal TNP, dando il via a una spirale nucleare nel Golfo con conseguenze imprevedibili. D’altra parte, come ha scritto lo stesso Araghchi su X, “zero armi nucleari = accordo. Zero arricchimento = nessun accordo”. Una formula che racchiude il cuore del contenzioso.
Dietro il velo della diplomazia omanita a Roma dunque si intravede un braccio di ferro strategico che va oltre il nucleare. In gioco non c’è solo l’uranio arricchito, ma l’intero equilibrio di potere in Medio Oriente e la credibilità dell’ordine internazionale stesso. E Roma, più che sede di pace, si rivela oggi teatro simbolico dell’impotenza diplomatica.