Iran. Hormuz, tra commercio e geopolitica

di Giuseppe Lai –

Secondo alcune fonti riportate mercoledì 18 giugno dal New York Times, l’Iran potrebbe collocare ordigni nello Stretto di Hormuz in caso di intervento degli Stati Uniti nella guerra con Israele, con l’intento di bloccare le navi da guerra americane nel Golfo Persico. La notizia è di stretta attualità, se si considera che il 22 giugno il presidente americano Donald Trump, anticipando il “tempo di riflessione” di 2 settimane precedentemente annunciato, ha deciso di intervenire a fianco di Israele sferrando un attacco militare a tre siti nucleari iraniani.
Come nota storica, occorre tuttavia sottolineare che le minacce di un blocco dello Stretto di Hormuz sono state avanzate più volte (e mai attuate) dalla Repubblica Islamica, e ciò è rapportabile alla delicatezza strategica di questo corridoio marittimo su scala mondiale. Tale striscia di mare, che collega il Golfo Persico al Golfo di Oman, rappresenta infatti uno dei principali snodi commerciali globali dove passa il 30% delle transazioni mondiali di petrolio e una parte significativa di quelle di gas naturale, con un transito medio mensile di più di 3mila navi.
La sua importanza era ben nota ai primi navigatori locali e, a partire dal XVI secolo, ai commercianti portoghesi, britannici e olandesi. Ma è solo dalla Seconda guerra mondiale, grazie alla leadership dei paesi del Golfo nella produzione petrolifera, che lo Stretto di Hormuz entra a pieno titolo tra le vie di navigazione più importanti al mondo. Esso permette il passaggio del greggio dei principali Paesi dell’area, in primis l’Arabia Saudita, il maggiore esportatore, seguita da Iraq, Kuwait, Emirati Arabi, Iran e Qatar.
Molteplici le destinazioni commerciali, innanzitutto la Cina che in termini di volumi è il più grande importatore di petrolio dalla regione, seguita da India, Giappone, Corea del Sud e Singapore. Anche l’Europa importa petrolio e gas naturale liquefatto dagli Stati del Golfo, gran parte del quale passa attraverso lo Stretto. Il transito di un elevato numero di imbarcazioni ha da sempre posto un serio problema alla sicurezza dei traffici, delle navi e degli equipaggi e ciò ha indotto a regolamentare la questione dal punto di vista giuridico. Sotto questo aspetto, le porzioni di mare dello Stretto sono legalmente parte dell’Iran e dell’Oman e in base alla Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare del 1982 uno Stato ha il diritto di esercitare la propria sovranità nelle acque territoriali fino ad un massimo di 12 miglia nautiche dalla propria costa. Da ciò consegue che Iran ed Oman godono congiuntamente del diritto di supervisionare il commercio marittimo che transita attraverso lo Stretto, concedendo a tutte le navi mercantili straniere il diritto a transitare nel canale a condizione di rispettare quanto previsto dalla Convezione. All’interno di tale quadro giuridico, l’Iran gode di una prerogativa supplementare. In queste acque controlla ben sei isole, tra cui quella di Abu Musa e Grande e Piccola Tunb, oggetto di dispute con gli Emirati Arabi. Questo vantaggio si è tradotto in una serie di atti, intimidazioni e operazioni militari che la Repubblica Islamica ha condotto nello Stretto per affermare una sorta di supremazia sul corridoio marittimo. Ad esempio, la minaccia avanzata dall’Iran nel 2012 di bloccare lo Stretto come ritorsione per le sanzioni statunitensi ed europee contro il suo programma nucleare. Oppure il tentato sequestro nel 2023 di due petroliere che attraversavano il canale.
La minaccia più recente è di questi giorni e riguarda un possibile blocco dello Stretto da parte dei Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione islamica. Si tratta di un’opzione tecnicamente realizzabile che tuttavia, come prima citato, l’Iran ha più volte annunciato in passato ma che non ha mai trovato concreta attuazione per una serie di ragioni geopolitiche. Sul piano strettamente militare l’arsenale strategico iraniano, come ha dichiarato in una recente intervista Sardar Esmail Kowsari, comandante delle Guardie rivoluzionarie, dispone di missili a corto e medio raggio in grado di colpire le piattaforme delle infrastrutture petrolifere, gli oleodotti nello Stretto o attaccare le navi commerciali, mentre i missili di superficie possono colpire le petroliere o i porti lungo il Golfo. Gli attacchi aerei e i droni sono in grado di disattivare le apparecchiature di navigazione e i radar nei principali porti della regione mentre i droni senza pilota possono essere impiegati per attaccare specifiche rotte o infrastrutture strategiche.
Inoltre l’Iran può tentare di schierare navi da guerra per bloccare fisicamente l’accesso allo Stretto. Una mossa militare di tale portata appare tuttavia difficilmente realizzabile. L’Arabia Saudita, il maggiore esportatore di greggio, vedrebbe bloccati o comunque rallentati i propri flussi, nonostante abbia attivato da tempo via alternative per bypassare lo Stretto, analogamente agli Emirati Arabi, e le difficoltà non mancherebbero neanche per gli altri Paesi del Golfo con un ruolo attivo nell’export. Il blocco penalizzerebbe anche importanti alleati dell’Iran, come la Russia e la Cina. Il Dragone, che rappresenta la seconda economia mondiale, alimenta le sue industrie e i suoi business anche grazie alle esportazioni di petrolio iraniano. Non sorprendono dunque le dichiarazioni del portavoce del Ministero degli Esteri cinese sull’invito alla moderazione e alla ripresa dei negoziati tra le parti in causa al fine di scongiurare una pericolosa escalation militare. Anche l’auspicato “regime change” da parte dei vertici israeliani avrebbe serie ripercussioni su ciò che l’Iran ha garantito finora alla Cina. Infatti, nel 2021, entrambi i Paesi hanno firmato un accordo di cooperazione economica che prevede un investimento cinese di circa 400 miliardi di dollari nei settori energetico e infrastrutturale dell’Iran. In cambio Teheran, che custodisce una delle principali riserve di idrocarburi al mondo, garantisce a Pechino una fornitura stabile di petrolio e gas a prezzi competitivi.
La stessa Europa importa petrolio e gas naturale liquefatto dagli Stati del Golfo e i flussi transitano in gran parte attraverso lo Stretto, con inevitabili conseguenze economiche in caso di chiusura dei rubinetti. Tra quelle dirette, un’impennata del prezzo del petrolio che farebbe aumentare i costi energetici e quindi l’inflazione, oltre a sconvolgere le industrie e in particolare i settori più vulnerabili come il manifatturiero, i trasporti e l’agricoltura. In aggiunta, le interruzioni potrebbero ritardare le importazioni europee di materie prime, elettronica e beni di consumo, con ripercussioni sulle catene di approvvigionamento. Alla luce di tali considerazioni, data la molteplicità degli attori in gioco e l’importanza degli interessi coinvolti, un eventuale blocco dello Stretto potrebbe innescare uno scenario di guerra con la partecipazione degli Stati Uniti, le marine dell’Unione Europea e gli Stati del Golfo, dunque un allargamento del conflitto ben oltre i confini della Regione. Ma a pagare le conseguenze della chiusura dello Stretto sarebbe lo stesso Iran, che utilizza il Canale per il transito dei propri beni di consumo e l’export del suo petrolio. Ciò comporterebbe un danno all’economia del Paese, già provato duramente da anni di sanzioni occidentali. Resta da vedere se tale effetto boomerang mantenga il potere dissuasivo nei confronti dei vertici di Teheran, dopo la decisione del presidente americano Trump di intervenire direttamente nel conflitto.