di Giuseppe Gagliano –
Le recenti dichiarazioni della guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, in risposta alle minacce del presidente statunitense Donald Trump, segnano un nuovo capitolo di tensione tra Teheran e Washington. La promessa di un “colpo forte” in caso di attacco americano, unita alla preparazione militare iraniana e al rafforzamento della presenza statunitense nella regione, disegna uno scenario di escalation che potrebbe avere conseguenze devastanti non solo per il Medio Oriente, ma per l’intero equilibrio globale. La crisi, che ruota attorno al programma nucleare iraniano e alle richieste di Trump, richiede un’analisi su più livelli: politico, legale, strategico e militare.
Dal punto di vista giuridico, le minacce di Trump di bombardare l’Iran se non accetterà un nuovo accordo sul programma nucleare rappresentano una violazione del diritto internazionale. La Carta delle Nazioni Unite, all’articolo 2(4), vieta la minaccia o l’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di uno Stato, salvo in caso di legittima difesa o con l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Le parole di Trump, ribadite in una lettera inviata a Teheran con un ultimatum di due mesi, costituiscono una “minaccia aperta” che, come sottolineato dal portavoce del Ministero degli Esteri iraniano Esmaeil Baghaei, mina i principi di pace e sicurezza internazionale. La comunicazione iraniana all’ambasciata svizzera, che funge da intermediario tra i due Paesi, è un passo formale per denunciare questa violazione e cercare una sponda diplomatica.
Tuttavia, l’Iran non è esente da critiche. L’arricchimento dell’uranio al 60% di purezza, un livello che va ben oltre le necessità di un programma nucleare civile, e l’ostacolo agli ispettori internazionali violano gli impegni presi con il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) del 2015, anche se Teheran sostiene che tali mosse siano una risposta al ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’accordo nel 2018 e al ripristino delle sanzioni. Questo gioco di reciproche accuse rende il terreno legale scivoloso: entrambi i Paesi possono rivendicare violazioni da parte dell’altro, ma il rischio è che il diritto internazionale venga sacrificato sull’altare della realpolitik, con conseguenze imprevedibili.
Sul piano politico, la crisi riflette la profonda sfiducia tra Iran e Stati Uniti, aggravata dalla decisione di Trump, durante il suo primo mandato, di abbandonare il JCPOA e imporre la strategia della “massima pressione” attraverso sanzioni. La risposta iraniana, che rifiuta negoziati diretti ma lascia aperta la porta a colloqui indiretti, come dichiarato dal presidente Masoud Pezeshkian, è un tentativo di bilanciare fermezza e pragmatismo. L’ingiunzione di Khamenei di evitare negoziati diretti con Washington riflette la linea dura della leadership iraniana, che non vuole mostrarsi debole di fronte a un’opinione pubblica interna già provata dalle proteste del 2022-2023 e dalla crisi economica.
Le minacce di Trump, d’altra parte, sembrano più un’operazione di politica interna che una strategia coerente. Con un secondo mandato appena iniziato, il presidente americano potrebbe voler riaffermare la propria immagine di leader deciso, capace di piegare avversari storici come l’Iran. Tuttavia, questa postura aggressiva rischia di alienare ulteriormente Teheran e di complicare il dialogo con gli alleati europei, che sotto l’amministrazione Biden avevano cercato, senza successo, di rilanciare l’accordo nucleare. La dichiarazione di Khamenei, pronunciata durante un sermone per l’Eid al-Fitr, non è solo una risposta a Trump, ma un messaggio al popolo iraniano: un richiamo all’unità nazionale di fronte a un nemico esterno, in un momento in cui il regime deve affrontare crescenti difficoltà interne.
Dal punto di vista strategico, la crisi evidenzia un delicato equilibrio di deterrenza tra le due potenze. L’Iran, consapevole della propria inferiorità militare rispetto agli Stati Uniti, ha sviluppato una strategia asimmetrica basata su tre pilastri: il programma missilistico, il sostegno a gruppi armati regionali (come Hezbollah e gli Houthi) e la capacità di colpire obiettivi sensibili, come lo Stretto di Hormuz. La minaccia del contrammiraglio Alireza Tangsiri di chiudere lo Stretto, un’arteria cruciale per il 20% del commercio mondiale di petrolio, è un’arma strategica che Teheran potrebbe usare per infliggere un danno economico globale, costringendo gli Stati Uniti a un calcolo costo-beneficio prima di qualsiasi azione militare.
Gli Stati Uniti, dal canto loro, stanno rafforzando la propria posizione nella regione con mosse calcolate: il dispiegamento di bombardieri stealth B-2 a Diego Garcia e la presenza delle portaerei USS Harry S. Truman e USS Carl Vinson nelle acque del Medio Oriente sono un segnale di forza, ma anche un rischio. La presenza di 50.000 truppe americane in almeno 10 basi nella regione, come sottolineato dal comandante aerospaziale iraniano Amirali Hajizadeh, le rende un bersaglio vulnerabile per attacchi asimmetrici, soprattutto da parte dei proxy iraniani. La metafora di Hajizadeh, “sono in una casa di vetro e non dovrebbero lanciare pietre”, sintetizza la strategia di deterrenza iraniana: qualsiasi azione americana potrebbe innescare una reazione a catena, con conseguenze difficili da controllare.
Sul piano militare, l’Iran ha investito negli ultimi anni in una rete di “città sotterranee missilistiche”, come riportato dal Tehran Times, progettate per resistere ad attacchi aerei. I missili iraniani, caricati e pronti al lancio, rappresentano una minaccia reale per le basi americane nella regione e per gli alleati degli Stati Uniti, come Israele e le monarchie del Golfo. La capacità di Teheran di condurre attacchi di precisione, dimostrata in passato con l’attacco alla base americana di Ain al-Asad in Iraq nel 2020, è un deterrente significativo. Inoltre, il sostegno iraniano a gruppi come Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen amplia il raggio d’azione di Teheran, permettendole di colpire indirettamente gli interessi americani e dei loro alleati.
Gli Stati Uniti, tuttavia, mantengono una superiorità militare schiacciante. I bombardieri B-2, capaci di penetrare difese aeree avanzate, e le portaerei nel Golfo Persico garantiscono a Washington la capacità di infliggere danni devastanti alle infrastrutture iraniane, comprese quelle nucleari. Ma un attacco americano non sarebbe privo di costi: l’Iran potrebbe rispondere con attacchi asimmetrici, colpendo non solo le basi militari, ma anche obiettivi civili, come le infrastrutture petrolifere saudite, o bloccando lo Stretto di Hormuz, con un impatto immediato sui mercati globali.
La crisi tra Iran e Stati Uniti è un gioco pericoloso, in cui entrambe le parti stanno alzando la posta in gioco. Le minacce di Trump, seppure motivate da obiettivi di politica interna, rischiano di innescare un conflitto che nessuno può vincere. L’Iran, dal canto suo, deve bilanciare la necessità di difendere la propria sovranità con il rischio di un’escalation che potrebbe devastare il Paese. In questo contesto, la comunità internazionale, in particolare le Nazioni Unite e le potenze europee, ha un ruolo cruciale da giocare per favorire la de-escalation e rilanciare un dialogo sul nucleare.
La storia ci insegna che le crisi in Medio Oriente raramente rimangono confinate: un conflitto tra Iran e Stati Uniti potrebbe coinvolgere l’intera regione, con conseguenze globali. La via della diplomazia, per quanto difficile, rimane l’unica strada percorribile per evitare un disastro. La domanda è: prevarrà la razionalità o l’orgoglio nazionale? La risposta, purtroppo, non è scontata.