di Giuseppe Gagliano –
Lo scorso 13 giugno Israele ha varcato una nuova soglia nella strategia della deterrenza armata, colpendo direttamente l’Iran con una serie di attacchi mirati contro obiettivi governativi e militari. Il risultato: l’eliminazione di figure di vertice come il capo delle Guardie della Rivoluzione Hossein Salami, il capo di Stato maggiore Mohammad Bagheri e diversi scienziati nucleari. Un’azione pianificata con chirurgica precisione e portata a termine con il solito sostegno implicito, se non esplicito, del suo alleato strategico: gli Stati Uniti.
Ma a quale prezzo giuridico e politico? Secondo Michael Becker, docente di diritto internazionale al Trinity College di Dublino ed ex consulente alla Corte Internazionale di Giustizia, l’uso della forza da parte di Israele rappresenta una chiara violazione del diritto internazionale, poiché non soddisfa i requisiti imposti dalla Carta delle Nazioni Unite per l’autodifesa. Nessun attacco armato iraniano era in corso, né imminente. Nessun missile lanciato, nessun esercito mobilitato. Solo un timore, per quanto strategicamente fondato, che Teheran potesse “un giorno” raggiungere la capacità nucleare.
In sostanza, Israele ha anticipato il rischio teorico di una minaccia futura, decidendo unilateralmente che bastasse la percezione dell’intenzione per legittimare una rappresaglia preventiva. Un precedente pericoloso che svuota di significato il diritto internazionale e che, se accettato, trasformerebbe ogni contenzioso geopolitico in un via libera all’aggressione preventiva.
L’intervento militare arriva infatti in un momento delicatissimo: sono in corso negoziati tra Iran e Stati Uniti per definire i contorni di un possibile accordo nucleare. Ma il tempismo dell’attacco, osservano molti analisti, suggerisce un calcolo ben preciso: sabotare la diplomazia attraverso l’escalation militare. Per Tel Aviv, l’Iran in possesso anche solo teorico dell’arma atomica rappresenta la fine della sua superiorità strategica nella regione.
Una superiorità, è bene ricordarlo, fondata non solo su armi convenzionali e sulla tecnologia di origine americana, ma anche, e soprattutto, sul monopolio nucleare. Secondo l’Arms Control Association, Israele dispone attualmente di almeno 90 testate atomiche. Un arsenale mai ufficialmente ammesso ma considerato la vera garanzia della sua sicurezza nazionale. In questo contesto, anche solo l’idea che Teheran possa avvicinarsi alla soglia del nucleare è intollerabile.
Ma è qui che emerge la contraddizione più grande. Mentre l’Iran è firmatario del Trattato di non proliferazione (TNP), Israele non lo ha mai sottoscritto. Mentre Teheran ha negoziato, pur tra mille ambiguità, limiti e verifiche con l’AIEA, Tel Aviv si è sempre rifiutata di sottoporre il proprio arsenale a qualsiasi ispezione. Eppure, è l’Iran a essere demonizzato come minaccia esistenziale e Israele a godere di totale impunità.
Le denunce delle violazioni commesse durante la guerra a Gaza, le condanne dell’ONU, le risoluzioni ignorate: tutto si infrange sistematicamente contro il veto statunitense. Washington continua a fungere da scudo diplomatico, impedendo qualsiasi censura sostanziale nei confronti dello Stato ebraico. Ed è proprio questa asimmetria che alimenta la radicalizzazione, il cinismo e la perdita di credibilità dell’intero sistema multilaterale.
Israele, dal canto suo, insiste: “l’Iran era a pochi mesi dall’arma atomica”, ha detto Netanyahu. Un funzionario militare ha parlato addirittura di “materiale sufficiente per 15 bombe”. Parole gravi, ma basate su stime e valutazioni, non su prove. L’AIEA, pur accusando l’Iran di mancata cooperazione e denunciando particelle di uranio arricchite fino all’83,7%, non ha mai dichiarato che Teheran abbia effettivamente costruito un’arma nucleare.
Il paradosso si fa dunque evidente: uno Stato che possiede armi nucleari, e che non è vincolato da alcun trattato, attacca uno Stato che formalmente ancora rientra nell’architettura di non proliferazione, nel silenzio complice delle potenze occidentali. È una distorsione profonda dell’ordine internazionale, che mette a nudo la fragilità del diritto e la brutalità della geopolitica.
E mentre il mondo discute, condanna tiepidamente o tace, l’Iran minaccia ora di abbandonare il TNP. Se lo farà, sarà l’effetto domino finale di un sistema che ha permesso a chi possiede le armi nucleari di dettare le regole a chi non le ha, e di farlo con i droni, con i bombardamenti, con l’assassinio mirato e con la diplomazia armata. Non sarà Teheran ad aver violato il diritto internazionale per prima. Ma sarà Teheran, ancora una volta, a pagare il prezzo più alto.