Iran. Takhtravanchi, ‘se Trump continua con lo zero arricchimento, falliscono i negoziati’

di Giuseppe Gagliano

Non è un negoziato, è un braccio di ferro. Ancora una volta Teheran e Washington si affrontano sul nodo che ha fatto saltare il tavolo nel 2018 e che oggi rende quasi impossibile un ritorno all’intesa sul nucleare: l’arricchimento dell’uranio. Per l’America di Donald Trump è una linea rossa invalicabile. Per l’Iran, una conquista nazionale irrinunciabile, costruita “con il sangue e con le risorse”.
Le parole del viceministro iraniano Majid Takhtravanchi sono inequivocabili: se gli USA continueranno a pretendere lo “zero arricchimento”, allora i colloqui in programma a Roma, il quinto round di una trattativa lunga e logorante, “non porteranno a nulla”. Nonostante gli auspici del presidente Trump, che dal Golfo Persico ha parlato di un accordo “molto vicino”, le distanze restano abissali.
Il problema è strutturale. Trump nel 2018 ha demolito l’accordo del 2015 (JCPOA), firmato da Obama e da cinque potenze mondiali, giudicandolo troppo favorevole a Teheran. Le sanzioni sono tornate, l’Iran ha reagito alzando i livelli di arricchimento fino al 60%, a un passo dalla soglia del 90% necessaria per l’uso militare. E oggi, nel 2025, la sfiducia reciproca è tale che persino le dichiarazioni pubbliche contraddicono ciò che si dice in privato, come denuncia il portavoce iraniano Baghaei.
C’è però un elemento nuovo: la proposta di un consorzio regionale per l’arricchimento, che includa Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Un tentativo di multilateralizzare il dossier, offrendo garanzie collettive e smorzando le accuse di intenti bellici. È una carta diplomatica audace, che punta a ridefinire la questione non più come “iraniana”, ma come regionale e condivisa.
Eppure il sospetto domina. Per l’Occidente, arricchire vuol dire potenzialmente armarsi. Per Teheran, vuol dire autonomia scientifica. Il capo negoziatore Araghchi è netto: “Continueremo, con o senza accordo”. Un’affermazione che sposta l’intero dialogo su un piano di potenza, non di compromesso.
Tra Muscat, Roma e Washington si gioca così una partita che è tecnica solo in apparenza. In realtà è un confronto tra sovranità e deterrenza, tra controllo e fiducia, tra la memoria delle umiliazioni subite e la paura di nuove destabilizzazioni. E mentre si discute di percentuali e centrifughe, resta la domanda di fondo: può esserci pace senza riconoscimento reciproco?